RITROVARE UN’ALTRA ITALIA IN “UNA SQUADRA”

Non è stato possibile smettere. Vista finalmente la prima puntata, sono andato avanti fino alla quarta (le ultime due sono in programmazione prossimamente, sempre su Sky) d’un fiato, non così per dire ma proprio senza respiro.

Entusiasmante “Una squadra” di Domenico Procacci, docuserie sul team italiano che tra il 1976 e il 1980 entrò nella leggenda del tennis mondiale con la prima Coppa Davis della storia e il raggiungimento di altre 3 finali, perdute malamente a causa di debolezze e retroscena umani che riaffiorano tra malinconia, rabbia e polvere di risentimenti mai sopiti.

Il racconto è serrato, incalzante, senza troppi indugi se non nei gesti e negli sguardi dei protagonisti che – colti con maestria nelle interviste attuali, così come furono spesso determinanti in campo – coinvolgono, qualche volta travolgono lo spettatore.

L’impatto immediato è quello della assoluta, palpabile spontaneità di Adriano Panatta, Paolo Bertolucci, Corrado Barazzutti, Tonino Zugarelli, i giocatori, e Nicola Pietrangeli, il capitano non giocatore, alternati ad altri attori di quell’epopea come l’allora presidente della Federazione, Paolo Galgani, e poi scrittori, giornalisti, avversari… Spontaneità che tenta forzosamente di sfociare nella sincerità, benché talvolta si colga imbarazzo, disagio, magari malinconica ritrosia nel rivelare proprio tutto e nonostante questo, quel tutto si evince e si capisce. Si vive di nuovo.

Spezzoni di interviste non a caldo, ma addirittura durante le partite grazie ai microfoni incalzanti, invadenti di Giampiero Galeazzi e Gianni Minà che non si fermavano davanti a nessun asciugamano, nessun accappatoio, e al garbo di Guido Oddo tra un allenamento e l’altro, una trasferta e l’altra.

Nel ricchissimo collage di video datati, la prima vittoria di Panatta su Pietrangeli, le dure giornate nei ritiri di Formia accanto a Borzov, Mennea e Sara Simeoni, le cene e le mondanità di Panatta e Bertolucci, ma soprattutto l’irruzione di Pietrangeli negli studi Rai dove Adriano Dezan stava intervistando uno sbigottito, indispettito Panatta.

Il ritratto, per chi come me era ragazzo e rivive quegli anni con euforica nostalgia, mette inesorabilmente a nudo l’ego di Nicola Pietrangeli (praticamente il C.T.) che a causa di questo finì col compromettere l’armonia del gruppo, l’esuberanza romanesca di Panatta, i lati più ruvidi di Zugarelli che a volte pare quasi scusarsi, altre invece incalza con la rabbia di allora, i saliscendi umorali di Barazzutti diverso da tutti gli altri (“Piemontese e friulano”) ma ricco di ironia e genuinità. Fino a Paolo Bertolucci, il più disincantato, il più ironico e divertente, con il quale la conoscenza personale non condiziona, anzi certifica una visione della vita più equilibrata e realista di tutto il gruppo. I duetti a distanza con l’amico fraterno Panatta, nella docuserie, sono uno spettacolo nello spettacolo. Tra tutti e quattro in ogni caso trionfano sempre la stima, il rispetto, il senso di appartenenza sebbene percorsi da discussioni, antipatia, insofferenza mai sopita. Eppure è proprio dal più duro e nascosto di tutti, Zugarelli, nelle sue espressioni e nelle sue parole, ad affiorare il rimpianto (ammesso candidamente da Panatta) di non saper gestire da giovani quei rapporti che, da adulti, avrebbero forse avuto un altro indirizzo. Nonostante la natura dei quattro resti comunque così profondamente diversa, così come le loro fortissime personalità.

Emergono aspetti del mondo di quegli anni intrisi di politica e gossip, drammi e facezie, un modo di porsi e di affrontare la gloria, la fama, in maniera frontale, diretta. Da uomini prima che da stelle dello sport. E gli uomini mettono a nudo sì il loro talento, la loro bravura, ma anche le molte vulnerabilità che portarono (oltre al trionfo in Cile) a batoste insopportabili. Le ultime due puntate saranno dedicate alla trasferta per la finale di Davis nel Cile insanguinato di Pinochet, nel 1976: trasferta tormentata, accompagnata da demagogie, polemiche e veleni tipici della nostrana ipocrisia, solo due anni prima di partecipare eccome – nell’indifferenza assoluta – ai Mondiali di calcio nell’Argentina del dittatore Videla e dei desaparecidos. Di cui l’Italia sapeva bene, in assoluto silenzio.

“Una squadra” ha un punto debole: nel suo montaggio tambureggiante, nei suoi salti temporali e nel succedersi ritmico degli eventi, rischia di escludere chi non conosce o non ama il tennis. Sarebbe un peccato, perché quegli anni sono il diario di un Paese, oltre che la storia, la leggenda, di una formidabile squadra.

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