RITROVARCI SEMPRE NELLE MANI DI TABACCI

Bruno Tabacci

di ARIO GERVASUTTI – Quando ancora avevo i capelli e pesavo 30 chili in meno, Bruno Tabacci era già presidente della Regione Lombardia. Il tempo passa per tutti, ma non per lui.

Eppure all’epoca, correva l’anno 1989, aveva già la chierica da perfetto curiale, sembrava perfino più vecchio della sua età: 41 anni appena compiuti e una carriera che pareva già arrivata al culmine. Tabacci Bruno, l’uomo dal quale oggi – anno 2021 – dipende la sopravvivenza del governo della Repubblica italiana, bassa pianura lombarda come origine e parrocchia come formazione, è il prototipo vivente del democristiano così come ce li ha consegnati la storia.

Tremendo baciapile, con il rosario in mano di prima mattina, ma spregiudicato contabile. Avesse fatto il prete, sarebbe stato quello incaricato di lisciare il pelo alle vecchine per promettere loro il paradiso in cambio di una piccola modifica al testamento: la casa e i risparmi non diamoli a quei lazzaroni di nipoti, lasciamoli alla Chiesa per il bene dei poveri.

Lui sa come si fa. Lo sa fin da ragazzo, è il 1964 quando intasca la prima tessera della Dc, ad appena 18 anni. È un investimento, perché dopo la laurea in Economia e commercio trova posto nell’ufficio studi del Ministero dell’Industria guidato all’epoca da Giovanni Marcora, potente fondatore della corrente di Base e soprattutto potentissimo segretario amministrativo della Dc per 30 anni. L’uomo che teneva il borsellino, insomma. È chiaro che se ti piazzi lì e impari a galleggiare senza muovere troppo le acque, sei a posto. E Tabacci sa galleggiare perfettamente. L’importante è esistere senza farsi notare. Infatti diventa capo della Segreteria tecnica dell’allora ministro del Tesoro, il povero Giovanni Goria, scomparso prematuramente, non prima di essere diventato presidente del Consiglio ed essersi guadagnato una memorabile vignetta di Forattini: una barba e un ciuffo di capelli senza volto. Tanto per definirne il peso e la sostanza.

È comunque quanto basta per diventare per un quinquennio consigliere regionale in Lombardia e finire nel mirino di quella vecchia volpe di Ciriaco De Mita, altro prototipo di democristianità distillata. È lui che lo piazza, tra 1987 e il 1989, alla presidenza della Regione più potente d’Italia. All’epoca, sembra un secolo fa, funzionava così. Non erano i cittadini a scegliere direttamente chi li doveva governare: erano le segreterie dei partiti, nelle segrete stanze. Mica come adesso, vero presidente Conte e fratelli rivoluzionari grillini?

È lì che l’ho incrociato, giovane, magro e capelluto cronista, e mi sembrava già “vecchio”. Comunque si poteva legittimamente considerare al culmine di una parabola professionale. E invece. Si ricicla come autorevole “presidente del Comitato per la ristrutturazione del settore zootecnico presso il Ministero dell’Agricoltura”, avesse detto. Gli ingenui come noi non capiscono però che è il posto ideale per lavorarsi i pacchetti di voti della Coldiretti e prendere l’ultimo tram elettorale con la targa Dc, nel 1992. Tangentopoli gli fa un baffo: indagato come tutti i democristiani dell’epoca, finisce assolto. Il premio è una poltroncina nei consigli di amministrazione dei colossi parastatali: Eni, Snam, Efibanca. Una sine cura in attesa dei tempi migliori, che arrivano a fine anni ‘90, prima con l’Udr di Cossiga e poi con il Ccd di Casini: surrogati della “Balena bianca”, diciamo un’“Acciuga sbiadita”. Puntelli centristi a sostegno del Berlusconismo trionfante di quegli anni. Piuttosto che niente, meglio piuttosto. Che gli importa, a lui: ha imparato da tempo che il potere non è “comandare”, ma “esserci”.

Sale sui partiti come su un tram, e con l’Udc rientra in parlamento nel centrodestra sia nel 2001 che nel 2006. Turandosi il naso, perché lui la destra la usa solo per farsi il segno della croce (e per farsi eleggere, ovviamente). Tant’è che quando nel 2008 il governo Prodi cade, in polemica con i democristiani allineati al Cavaliere – e soprattutto timoroso che si debba ritornare a dare la parola agli elettori -, fonda il movimento “Rosa per l’Italia” a sostegno del Professore. Ma il sostegno non basta, e si va a votare con una previsione di ampia vittoria per Berlusconi e soci.

E cosa fa, il Nostro? Un triplo salto mortale carpiato con doppio avvitamento: ricuce con Casini e l’Udc in cambio di un posto sicuro nel Collegio Lombardia 1. Porta in dote uno “straordinario” 3,5% e si ripresenta al portone di Montecitorio. Il tempo di sedersi, naturalmente, e fa il gesto dell’ombrello per spostarsi nel gruppo Misto con altri democristiani della diaspora di centrosinistra.

È quello il suo ambiente ideale, tanto che il nuovo sindaco di Milano Giuliano Pisapia, vecchio comunista che ha sciacquato i panni in Arno, lo nomina anche assessore al Bilancio, ai Tributi e – soprattutto – al Patrimonio. Ma nel 2013 è già tempo di elezioni, e stavolta il centrosinistra si inventa le primarie. Il volpone democristiano si candida pure lui, portando a casa uno strepitoso 1,4% di consensi. Ricordate: “L’importante è esserci”. Infatti quell’1,4% è il passaporto per un altro giro di giostra, basta offrirlo a Bersani in cambio di un collegio sicuro nella rossa Toscana. Benigni che vota Tabacci vince il premio come miglior fotografia dell’anno.

Il suo Centro Democratico si piazza anche fisicamente al centro di un emiciclo diviso in due. Offre il simbolo persino alla radicale Emma Bonino e a tutti i peones che sanno di avere una poltrona senza gambe. Il concetto è semplice: uniamoci per salvare il posto, perché con i genii che ci sono qui dentro (in Parlamento) l’importante è fare come Totò e Peppino in piazza a Milano: non muoversi, tanto prima o poi di qua passano tutti.

E infatti lì sono passati Conte e gli altri assetati di voti. Fino al prossimo giro, dove Tabacci Bruno sgranando il rosario ci sarà ancora: si accettano scommesse. Perché forse noi non moriremo democristiani: ma lui sì.

Un pensiero su “RITROVARCI SEMPRE NELLE MANI DI TABACCI

  1. Fabio Alberti dice:

    Un italiano perfetto, maestro di astuzie e strategie politiche che, vista la pochezza politica e umana dei politicanti attuali. a livello comunale, regionale e nazionale lo collocano tra macchivelli e Leonardo da vinci. Per lui stare sempre in corsa è come rubare le caramelle ai bambini, anzi andare a caccia nel pollaio. Che scenario deprimente.

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