QUI WEMBLEY, I VERI CAFONI SONO REGALI

di ARIO GERVASUTTI – In molti hanno criticato – con qualche ragione – la mancanza di fair play dei calciatori inglesi che si sono rapidamente sfilati dal collo la medaglia d’argento. Eppure c’è qualcosa di più serio – mi azzardo a dire di più grave – che domenica sera è accaduto dalle parti di Wembley, e che non mi pare sia stato colto appieno. I calciatori, in fondo, hanno offeso più che altro se stessi: ma solo chi non ha fatto sport a un certo livello può serenamente pontificare rispetto allo sconvolgimento che subisce un ragazzo poco più che ventenne di fronte alla più cocente delusione della sua vita. Ti viene voglia di urlare al mondo che vuoi scomparire, altro che fair play. E non stiamo parlando di filosofi, ma di calciatori che il più delle volte vengono dai sobborghi di Londra: il fair play non sanno neanche che cosa sia. Quindi – con molte virgolette – si possono perdonare.

Non dovremmo invece perdonare un altro paio di cosette.

La prima: quando il presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella è entrato a Wembley non ha trovato ad attenderlo nessuno. Solo il nostro ambasciatore. Ha incrociato per caso il premier inglese Boris Johnson al bar sotto la tribuna d’onore – come testimonia un filmato amatoriale – e questo l’ha salutato come si fa con un conoscente che si incontra al supermercato per caso: “Ohh, amico presidente, how are you? Good luck”, e salutame a soreta. Fine. Si è mai vista una cosa del genere in qualsiasi paese al mondo? E’ così che si riceve e ospita il massimo rappresentante di una nazione? E il principe, la principessa e il principino vestito come un pinguino (la cravatta a 6 anni? Ma tornate a scuola, per favore…) dov’erano? Erano forse impegnati a imparare la riverenza? Erano lontani trenta metri, venti file più su, sul palchetto reale. Prima della partita, in tribuna, si è visto in mondovisione Mattarella da solo, scortato unicamente dal presidente della Federcalcio Gravina e dalla Sottosegretaria allo Sport Vezzali. Si guardava intorno, e il massimo dell’autorità che ha trovato erano Boniek e Boban. Vi ricordate la finale dei Mondiali in Spagna, quella con Pertini? Lui a sinistra, in mezzo re Juan Carlos e la regina, a destra il cancelliere tedesco Helmut Schmidt. Si chiama protocollo: nella migliore delle definizioni, rispetto. Cari inglesi, cari Reali, urge un ripasso. Perché sarete anche usciti dall’Europa, e non è detto che abbiate fatto male: ma le regole dell’educazione non sono cambiate.

La seconda, che in fin dei conti ha qualche relazione con la prima: al termine della partita, un’immagine ha fissato un addetto mentre incideva il nome del Paese vincitore sulla coppa, prima della consegna. E che cosa stava scrivendo? “Italy”. Ora: qualcuno può spiegarmi per quale motivo il nome del nostro Paese è stato inciso in inglese? In una lingua, peraltro, che non è più “comunitaria” e che comunque non è la lingua ufficiale dell’Uefa che usa il francese? Se la finale si fosse giocata a Roma e gli inglesi avessero vinto, avrebbero scritto “Inghilterra” sulla coppa? Non ci crederei nemmeno se lo vedessi. E non intendo vederlo, sia chiaro.

Direte: con tutti i problemi del mondo, stai qui a spaccare il capello in quattro per delle quisquilie. Può essere. Ma come nel calcio, anche nella vita si deve partire dai fondamentali. E qui i fondamentali sono stati cancellati, dimenticati. Prima di inginocchiarsi per qualsiasi motivo, almeno si impari l’educazione. Altrimenti la brutta figura è doppia.

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