La teoria della “curva a U della felicità” suggerisce che il benessere soggettivo, e non la felicità, di cui il benessere non è esattamente un sinonimo, segua una sorta di andamento a forma di U nel corso della vita: elevato in gioventù, in calo durante la mezza età, e nuovamente in aumento dopo i 50/55 anni.
Il successo di questa teoria è legato anche al fatto che tale modello è stato riscontrato in diverse culture e contesti, quasi indicando una tendenza universale anche se con alcune importanti differenze legate a fattori culturali, economici e sociali.
In pratica, si è molto felici da bambini, il benessere psicologico si riduce con il passaggio all’età adulta con le conseguenti responsabilità e, dopo la crisi di mezza età riguardante una porzione significativa della popolazione mondiale, crisi con malessere, preoccupazioni, ansie e stress, si osserva una risalita del livello di benessere negli anni del pensionamento.
La U della felicità veniva considerata una teoria sostanzialmente ottimistica in quanto postulava l’ipotesi che, nonostante le sfide dell’invecchiamento, potesse esservi un discreto benessere nella terza età. Secondo Piper, lo studioso inglese che ha studiato accuratamente il fenomeno, esso avrebbe origine da basi biologiche e, se si superano i condizionamenti dell’infanzia e le pressioni sociali legate anche al mondo del lavoro, si può avere una serena ultima fase della vita. Tuttavia, negli ultimi 15 anni la teoria sta perdendo rapidamente credibilità.
Il punto sono proprio le pressioni sociali: in una società fortemente competitiva come la nostra la curva ad U non funziona più. Questo vale sia per i giovani che per gli anziani. Il benessere psicologico dell’infanzia appare utopistico e nella società del XXI secolo sono in grande aumento sintomi depressivi e altre patologie psichiche nella popolazione giovanile. Se si pensa che già a 2-3 anni i bambini attraverso la tv ricevono stimoli pubblicitari per consumi eterodiretti e non corrispondenti a esigenze personali, e a questo si aggiungono la pressione familiare per la ricerca del meglio a tutti i costi, il mito della bellezza e della felicità illusoriamente proposti come a portata di mano e la sempre più difficile ricerca di un percorso di autonoma individuazione, è facile comprendere come il malessere aumenti tra i più giovani.
Ma anche la fase del benessere dopo il pensionamento rischia di essere un mito, in quanto richiede un’attiva partecipazione sociale, oltre che una discreta condizione di salute. Ma in un paese in cui si tende ad isolare gli anziani, percepiti come “improduttivi” e non più fonte di insegnamento, laddove mancano servizi e un adeguato welfare sociale, invecchiare appare sempre più faticoso. Inoltre, non giovano le recenti sempre più gravi preoccupazioni per gli scenari mondiali.
Giusto parlarne anche perché in teoria segnalando un problema si possono poi ricercare delle soluzioni. Ma sono un po’ pessimista. E già, sto diventando vecchietto anch’io…