QUELL’UNITA’ NAZIONALE OLTRE LA NAZIONALE

di GHERARDO MAGRI – Adesso che il picco peggiore della pandemia è alle spalle, bisogna trovare il tempo giusto per fermarsi e riflettere su quanto è successo. Non è un automatismo facile nelle aziende, abituate a riprendere i ritmi del business senza guardarsi troppo indietro. Il fare prevale spesso sul pensare e il rischio è di dimenticarsi in fretta di tutto. Ma le cose sono cambiate parecchio negli ultimi anni e le organizzazioni si sono evolute, migliorando i propri comportamenti e integrandosi di più e meglio con il contesto sociale. Un paio di esempi concreti.

Il primo riguarda l’iniziativa di pianificare sessioni interne a gruppi, in cui tutti i dipendenti possano discutere liberamente di come si è affrontata la pandemia e delle conseguenti reazioni avute. Qualcosa che già si era commentato dal vivo, ma ora è il momento di sedimentare le esperienze fatte, scambiarsi impressioni e le “best practice”. È come se si fosse vissuto un enorme periodo di stress test – definizione abbastanza in voga di questi tempi -, in cui tutti i parametri standard sono saltati. Anche le migliori scuole di formazione erano del tutto impreparate. E ciascuno di noi ha tirato fuori il meglio, sono fiorite idee innovative ed è prevalso un grande senso di vicinanza. Lezioni preziose di cui fare tesoro per poter riprodurre le stesse dinamiche virtuose anche in tempi più normali. Uno stop dentro le aziende molto salutare per contestualizzare ricordi, emozioni e creatività, resettando il nostro modo di pensare e agire. Da fare adesso o mai più, fortemente suggerito, sono convinto produrrà molto valore aggiunto.

Il secondo è la condivisione continua con tutta l’organizzazione di pensieri che esulano dallo stretto contenuto lavorativo. Nell’ultima convention aziendale (purtroppo ancora da remoto, in attesa di fare quella più vera a fine anno, finalmente in presenza), mi sono soffermato sul perché gli italiani scendano in piazza col tricolore solo quando vince la nazionale di calcio. Temi che avevamo condiviso già in occasione di un altro evento interno, in cui spiccava l’intervento fuori sacco intitolato “L’Italia che vorrei”. Io penso che dovremmo celebrare chiassosamente tutti insieme meriti culturali, per un Nobel (ci manca dal 2007), per un Oscar (l’ultimo nel 2014), per la Grande Bellezza (con i 57 siti Unesco, freschissimo nuovo primato mondiale grazie a Montecatini Terme e la pittura del ‘300 di Padova). Soprattutto quando lo stato vince le sue grandi battaglie contro la criminalità organizzata, contro la corruzione. Vorrei vedere i caroselli col tricolore all’arresto del latitante mafioso più ricercato del mondo, scomparso nel nulla dal ’93, unendoci alla festa della forze della polizia. Suonare i clacson per la prima giornata a decessi zero. Riprenderci la festa del 2 giugno, insomma, brindando senza più sentire quel leggero senso di pudore o di vergogna nello sfoggiare il biancorossoverde. Non smettere mai di stimolare discussioni a tutto tondo.

Perché, in fondo, le organizzazioni aziendali sono delle vere e proprie comunità che possono contribuire a far crescere il Belpaese. Siamo lavoratori e cittadini allo stesso tempo, se siamo coerenti ci dovremmo comportare (bene) nell’identico modo nei diversi luoghi in cui viviamo. Il segreto è semplice: basta decidere di usare al meglio la nostra testa.

 

 

 

 

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