QUELLO CHE E’ GIUSTO DIRE A UN PASSO DALLA PENSIONE

(Avviso ai lettori: Racconto ispirato dalla realtà, ma parzialmente romanzato).

Io ho frequentato il liceo scientifico alla fine degli anni ’70. Subito dopo il sessantotto, negli anni
forti della contestazione giovanile, per intenderci. Al quinto anno, la mia classe cambiò insegnante di Lettere e fummo affidati ad uno dei docenti più noti. Aveva fama di essere molto bravo, autore di diverse antologie, in passato politicamente impegnato. Ero curioso di conoscerlo.

Si rivelò una grande delusione. In pratica, passava il tempo leggendo il giornale. Forse, se la
memoria non mi inganna, fumando pure sigarette alquanto puzzolenti. Probabilmente era il suo ultimo anno di insegnamento. Provava sfiducia verso tutti: allievi, colleghi, preside, città. Di tanto in tanto, piegava il giornale e provava a farci qualche domanda, per verificare le nostre conoscenze. Ma evidentemente le nostre risposte dovevano risultargli immancabilmente
stupide, tanto da reimmergersi subito nella lettura del quotidiano. Sconsolato, si convinceva
ulteriormente che era tempo perso provare ad insegnare qualcosa a delle teste di rapa come noi.

Io e pochi altri un po’ volevamo ribellarci a tale atteggiamento rinunciatario ma, alla fine, potere del conformismo, ci lasciavamo sedurre dal fascino delle lezioni autogestite, con la possibilità di andare a giocare a pallone in cortile. In fondo, ci stava bene così.

Credo che l’atteggiamento del prof. fosse noto in presidenza, ma tale era il suo prestigio conquistato nei decenni precedenti che, per quanto ne seppi, nessuno osò protestare. D’altro canto, lui avrebbe saputo motivare con grande cultura perché era meglio non fare nulla, visto il fallimento complessivo del sistema scolastico.

Ora sono io ad essere prossimo alla pensione. Credo di aver lavorato con passione e impegno per tanti anni nel servizio pubblico sanitario e forse qualcosina di buono l’avrò pur fatta anch’io.
Ma confesso che ultimamente mi capita di ripensare spesso al professore e ora lo guardo con occhi diversi. In certi momenti di scoramento, mi scopro a chiedermi se serve davvero a qualcosa parlare con i pazienti, con i dirigenti, con i politici che scelgono chi debba amministrare la sanità pubblica, con i burocrati. E se, giunto alla fine, facessi come lo scrivano Bartleby, il protagonista di un gran racconto di Melville, che iniziò a rispondere “no” a qualsiasi richiesta gli facessero a lavoro, con cortesia e senza apparente motivo?

D’altro canto, la psicologia del lavoro ci insegna che questo fenomeno si chiama burn-out, volgarmente uscire di testa, ma pochi ricordano che esso riguarda esclusivamente chi ha davvero investito con passione nel proprio lavoro, che può giungere a stare davvero male a causa delle delusioni provate nel proprio contesto professionale.

Oggi penso che i cattivi maestri siano quelli che semplificano troppo la realtà e che ti insegnano a credere che andrà sempre bene, magari con atteggiamento seduttivo verso gli allievi e senza un briciolo di severità. I buoni maestri, invece, sono quelli che ti insegnano che le cose sono complesse e complicate, che nonostante nel pianeta l’ingiustizia regni sovrana occorre provare a fare la propria parte con il massimo impegno possibile, stabilendo, per quanto ci è possibile, che direzione dare alla nostra vita. Anche se mi aspetta la pensione, niente di tutto questo andrà mai in pensione, almeno per quanto mi riguarda.

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