QUELLO CHE CI HANNO INSEGNATO FEDERER E NADAL

La pagina più spietata dello sport è arrendersi all’unico avversario invincibile: l’età. Quel giorno arriva. Per tutti. Puoi tirarla in lungo, magari con l’arco o col piattello, ma insomma il fisico a un certo punto ti guarda dallo specchio, si gratta il mento con il pollice e l’indice, ti squadra nudo come se fosse femmina. Alla fine scuote il capo, stringe le labbra, sussurra con amore, con rispetto nel tuo orecchio: “Andiamocene, non abbiamo più nulla da fare qui. Nient’altro da dire. Dai”. Chiudi il borsone e giriamo i tacchi.

E’ suonata la campanella per Roger Federer, ultimo giro della giostra. Ne ho visti di addii di stelle, in vita mia, ne abbiamo visti tanti, in campo o addirittura in jeans e camicia come quel giro di campo di Marco Van Basten che fu un saluto, un ringraziamento commosso più che un addio che in realtà si era consumato già da tempo. Con loro, con quegli astri, se ne sono andati i nostri anni, nella loro leggenda sono sopravvissuti i nostri ricordi. Però un addio come quello di King Roger no, non lo avevo mai visto. Quel pianto mano nella mano con il suo avversario scolpito nella storia del tennis, Rafa Nadal che singhiozzava quanto lui, seduti su una panchina a guardare mesti il loro campo di battaglia, a ricordare le loro sfide eterne, a pensare che è finita. E qualcuno ha detto, ha scritto, che Nadal forse piangeva pensando al suo di addio, ormai prossimo, immedesimandosi solo in parte nella sofferenza del rivale di sempre.

Si può rispettare un rivale, ma non si può condividere niente con lui, non sempre. Non un addio. Questa è stata un’eccezione, romantica, suggestiva. Unica. Lo sport è l’unico mestiere in cui a un certo punto a scegliere, a decidere, non sei più tu. Tutto si può cambiare nella propria vita, ho persino conosciuto gente che ha cambiato squadra di calcio per cui tifare, ma non la data del traguardo finale se fai sport. Ho conosciuto bene Raimondo Vianello che ha giocato a pallone fino a 80 anni suonati, ma alla fine – proprio alla fine – si è arreso anche lui. Anche ai dilettanti sovrappeso come me capita che arrivi quel giorno e un po’ alla volta ho dovuto arrendermi al calcio, che amavo, alla bicicletta, ora anche al nuoto. Mi resta una triste impolverata cyclette in casa che, forse, rimonterò tra qualche mese. Forse. E’ un destino che ho diviso con molti amici, alcuni più fortunati ce la fanno anche dopo i 60, ma io li vedo, aggrappati alla loro classe e alla loro passione, ma spettinati dai giovani che sfrecciano accanto, se ancora hanno capelli in testa. Per dire “basta!” non ci vuole coraggio: ci vogliono un buon udito e la capacità di ascoltare. L’uomo e la donna bioniche non sono parte di questo mondo.

E’ triste ogni addio, ma quello in cui non sei tu a scegliere, non sei tu a decidere, ti sconfigge senza rivincite, è struggente. Come quando è lei che ti lascia e sai bene che non c’è più niente da fare. Niente da dire. Ha deciso lei, non si torna indietro.

In quelle lacrime di Federer ho visto la sua ultima partita che in realtà non ha potuto giocare, avendola già persa prima di entrare in campo. E Nadal che davvero stava pensando alla sua, tra poco. Possiamo cambiare mestiere, soffrire cambiando donna, mollare tutto e aprire un ciringuito alle Baleari, come Germano Lanzoni, ma è una scelta propria, folle o razionale. E’ una fuga. Nessuno ci impone nulla: qualche volta il cuore, qualche volta la pancia, qualche volta la ragione, ci danno dei consigli. Poi sta a noi decidere.

Quando si è Federer non si può decidere, è la natura a fermarti. Capiterà anche a Zlatan Ibrahimovic prima o poi, per quanto – come qualche altro indistruttibile ultraquarantenne – abbia rimandato quel poi chissà quante volte. Lo striscione dell’ultimo chilometro è là, si sposta avanti come un miraggio, fino a quando si dissolve tra un raggio di sole, una lacrima, e ti accorgi di averlo alle spalle.

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