QUELLI CHE NON CAPISCONO DI TIRARE LA CINGHIA

di GIORGIO GANDOLA – Se n’è andato con il forziere, lo aveva già fatto a Torino e a Londra. Antonio Conte (cognome con un destino gramo nel 2021, gente con la valigia sotto il letto) ha deciso che l’Inter non lo merita più e che lo scudetto non è niente rispetto al suo ego. Del resto lui non si percepisce come terrestre ma come marziano e alla richiesta del club di gestire la squadra con un budget inferiore “perché in questi due anni nel mondo è successo qualcosa”, ha risposto no. Ha confuso la pandemia con Pandev. E si è fatto liquidare 7,5 milioni di buonuscita per togliere il disturbo. La prima reazione è quella di battezzare fesso chi glieli ha dati (con quella cifra si ingaggia un altro allenatore di prima fila), ma non abbiamo letto il contratto, quindi insulto sospeso.

Il messaggio è chiaro e triste: alle altitudini rarefatte dove pasteggiano a champagne gli dei del pallone il Covid è percepito come un contrattempo, un fastidioso tampone, al massimo una partita di Coppa Italia. I calciatori hanno giocato negli stadi vuoti ma non si sono accorti delle cause e delle conseguenze. Il mondo è in recessione, in Italia molti lavoratori sono appesi alla cassa integrazione, ombrello protettivo destinato a chiudersi fra due mesi e a far scoppiare l’uragano dei licenziamenti. Dettagli, sembra che l’emergenza sanitaria non riguardi tutti. E c’è chi ritiene di dover tirare diritto, per esempio Conte e Donnarumma, in questo caso protagonisti di storie parallele sulle due sponde del Naviglio Grande.

Nessuna intenzione di fare del moralismo spicciolo, ma non si può rimanere indifferenti davanti a giocatori che rifiutano con un certo disprezzo di vedersi tagliare il 15% di stipendi milionari (per un anno), ad altri per i quali 8 milioni di contratto a 22 anni sono noccioline. E a un allenatore che fa i capricci perché gli hanno comunicato che non avrà tre rinforzi per la Champions, anzi dovrà accontentarsi di perdere uno o due  big per far respirare le finanze (Hakimi, Lautaro Martinez o Bastoni).

È normale che i progetti di un’azienda vengano riparametrati al ribasso davanti a una crisi epocale umanitaria e finanziaria come questa, con un orizzonte ancora nebuloso. E sarebbe anche normale che chi si è incoronato custode del cuore dei tifosi, sempre pronto a difendere l’identità, la maglia e la sacralità del lavoro con il gruppo, oggi si faccia carico della responsabilità di gestire la squadra in un momento complicato. Poi, è anche vero che all’originale domanda a chi dedicava lo scudetto, Conte ha risposto con democratica comprensione: “A me stesso”. Della serie, la squadra sono me.

Conte poteva prendersi l’Inter sulle spalle, onorare l’ultimo anno di contratto, diventare il capitano conradiano nel mare in tempesta e giocare a testa alta la sfida più difficile: provare a rimanere al vertice (nessuno gli avrebbe chiesto di rivincere per forza, di questi tempi) e guadagnarsi l’ammirazione di tutti per un gesto da leader, mosso da coraggio e da autentica fedeltà. Che anche in questo caso non avrebbe fatto rima con gratuità francescana perché il mister aveva un contrattino da 13 milioni in cassaforte ancora per una stagione.

Niente di tutto questo, la storia dell’Inter è lastricata di meravigliosi colpi di scena. La tifoseria bauscia è allenata a ogni follia; nessuno dimentica che Mourinho se ne andò un minuto dopo il Triplete piantando tutti in asso nel garage del Santiago Bernabeu per firmare il contratto con il Real Madrid.

Gli allenatori passano, le maglie restano. Alla fine nei due anni in nerazzurro Conte ha fatto benissimo in campionato (un primo e un secondo posto) spodestando una Juventus che vinceva dalla notte dei tempi, cosa che nel terzo millennio accade solo in Germania e forse in Groenlandia o in Madagascar. Ma ha anche fatto malissimo in Champions secondo tradizione personale. Ha portato la squadra in finale di Europa league e questo è pure un ottimo risultato che gli consente di guadagnarsi il rispetto duraturo dei tifosi. L’affetto, dopo la sceneggiata con buonuscita, sta su un altro pianeta.

Poi ci sono gli Zhang che hanno più colpe di Conte. Succubi dei diktat del liberalismo comunista cinese (oggi tutto è liberale, un contorno come la rucola negli anni ‘80), avrebbero potuto e dovuto vendere il club sei mesi fa quando due fondi – uno inglese e l’altro americano – offrivano loro 800 milioni per pagare i debiti e agevolare l’uscita di scena. Non hanno voluto farlo per avidità (chiedevano un miliardo) e per vanità; non si sono voluti lasciar scappare la passerella scudetto in uno dei più importanti campionati d’Europa.

Ora l’imperativo è tirare la cinghia, che non significa smantellare. Dovesse accadere, i tifosi di nuovo assiepati a San Siro avranno un obiettivo primario nei confronti della proprietà cinese: farla correre in direzione Lorenteggio. Dicono che la Via della Seta passi anche da lì.

 

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