QUELLI CHE ANCORA GIOCANO AL PICCOLO FASCISTA

Il processo ai naziskin che si piazzarono, non invitati, nella sede dell’associazione “Como senza frontiere” e inflissero ai presenti un pistolotto contro l’immigrazione, viene da tempo interrotto e rinviato, come in una pièce di Beckett o in un film di Buñuel, a causa di vari impicci formali, a dimostrazione che, forse, non solo la storia si ripete due volte, prima come tragedia e poi come farsa, come sosteneva Marx, ma anche una terza come pasticcio burocratico, come pratica inevasa.

Intanto, sono passati quattro anni e l’episodio, lungi dall’aver trovato una soluzione, almeno giudiziaria, si presta ancora a far da pretesto per i soliti scambi d’invettive digitali tra chi lo considera una “inaccettabile intimidazione” e chi lo liquida come “ragazzata” (ma chiunque entri senza permesso in casa altrui commette violenza; se poi lo costringe ad ascoltare qualche pagina di prosa sconnessa siamo evidentemente in presenza di un crimine gravissimo).

In ogni caso, il processo di Como sembra prestarsi a metafora del rapporto irrisolto che l’Italia mantiene con il regime mussoliniano: uno spettro di posizioni che vanno dalla nostalgia più conclamata, che si manifesta ogni 28 aprile sul lago di Como con gran pezzature di orbace e bandistico oscillar di gagliardetti (a commemorazione della morte del duce), all’antifascismo più insistito, teso a colpire chiunque osi pensarla diversamente. In questo ventaglio, manca in genere un’approfondita conoscenza di che cosa fu, in realtà, il fascismo: in altre parole, manca l’ingrediente che consentirebbe di liquidarlo una volta per tutte nonché di vaccinare il Paese contro i suoi sintomi e il suo decorso, consentendoci di imboccare finalmente una nuova strada di coscienza politica.

Federico Fellini diede del fascismo una definizione che mi pare azzeccata: una sorta di infantilismo della politica. Tanto è vero che i suoi tipici toni grotteschi ebbero buon gioco a rappresentarlo in film come “Amarcord” e “Roma”. Infantilismo oggi rimasto in dosi non trascurabili nei fascisti propriamente detti e negli antifascisti più intransigenti, alimentato dalla struttura stessa dei mezzi di comunicazione – i social su tutti – che ci vogliono contrapposti per bande.

Quando a essere infantili sono uomini d’età l’effetto può essere ridicolo. Come per esempio il falconiere spagnolo della Lazio (carica che già fa ridere di suo) il quale, in maglietta e braghette, si è esibito nel saluto romano sotto la tribuna Tevere per poi dirsi stupito del clamore destato e spiegare che, lui, “ha una cultura di destra e stima Mussolini”, perché “come Franco ha fatto grandi cose”.

Un gigante del pensiero, senza dubbio, anche lui legato al ritornello delle “cose buone” lasciate dai dittatori. Una posizione, tra l’altro, fascisticamente parlando un po’ deboluccia. Dobbiamo infatti constatare come dal marmoreo “Il duce non sbaglia mai” del Ventennio si sia passanti a un guardingo “Qualche volta l’azzeccava”. Molti nostalgici, beccati in flagranza di braccio teso, non di rado ridimensionano la portata della loro fede, parlano di Mussolini al massimo come di “uno statista da ammirare” e del saluto romano esibito nei raduni (gesto che non ha riscontri nei reperti dell’antica Roma e che ci viene probabilmente dalla pittura storica del XVIII secolo, in particolare da quella francese) come di un tentativo di chiamata collettiva del taxi.

La ritualità fascista sembra dunque oggi vissuta insomma come segno di riconoscimento all’interno di una conventicola, frutto della coesione e dell’esaltazione del gruppo, da rinnegare, o almeno risagomare, una volta alla luce del sole. Ecco ancora una certa aria d’infantilismo, di precipitoso rifugio in una scorciatoia del pensiero. Quasi un gioco proibito, verrebbe da dire, non fosse che certi giochi sono pericolosi e finisce che in troppi si fanno male.

 

 

 

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