QUELL’ERBICIDA DA DISERBARE

di PAOLO CARUSO (agronomo) – Nei giorni scorsi il Senato ha votato quattro mozioni, 2 a favore e 2 contro l’utilizzo del glifosato, il famigerato erbicida considerato dannoso per la salute umana e per l’ambiente: sono state tutte approvate.

Delle mozioni presentate in Senato, a palesare le reazioni e le polemiche di parte della comunità scientifica e di molte associazioni è il testo firmato dalla scienziata e senatrice a vita, Elena Cattaneo, che di fatto disinnesca le mozioni che obbligano il governo a un’azione decisa contro l’uso del noto diserbante.

La mozione della senatrice Cattaneo ha destato scalpore e sollevato molte proteste. In particolare, contro la mozione si sono scagliati gli scienziati dell’Isde (Istituto internazionale medici per l’ambiente), i quali hanno redatto un documento a firma di Fiorella Belpoggi, direttrice scientifica dell’Istituto Ramazzini di Bologna, che afferma testualmente: «Ci chiediamo come sia possibile che, mentre a livello internazionale soprattutto in Europa, sempre più si va verso pratiche agronomiche in grado di conciliare salubrità dell’ambiente, qualità delle acque, fertilità del suolo, biodiversità con qualità del cibo e salute umana, ci sia ancora qualcuno che tenta di difendere il modello agricolo industriale basato sulla chimica, di cui proprio il glifosato è il tragico vessillo».

Occorre rilevare che, curiosamente, è la prima mozione che la senatrice a vita Cattaneo presenta in aula da quando è stata nominata dal presidente Napolitano 7 anni orsono, peraltro su un tema molto distante dal settore di sua competenza, ovvero la ricerca sulle cellule staminali.

Il glifosato, agli occhi dell’opinione pubblica, oggi più che mai rappresenta l’antagonista a un modello di produzione fondato sui principi della sostenibilità ambientale e del rispetto della salute umana. La sua storia così controversa merita un approfondimento, necessario per capire i tragici meccanismi che regolano il rapporto, troppo spesso poco lineare, tra business, salute, politica e ricerca scientifica.

Il glifosato (N-fosfonometil glicina) è stato per la prima volta sintetizzato in laboratorio negli anni Cinquanta nei laboratori della Cilag; vent’anni dopo, nei laboratori della Monsanto, grande gruppo chimico Usa di recente acquistato dalla tedesca Bayer, è stata scoperta la sua azione come erbicida ad ampio spettro che lo ha portato ad essere il principale principio attivo di molti erbicidi generici.

È  stato introdotto in agricoltura negli anni Settanta del secolo scorso dalla Monsanto con il nome commerciale di Roundup. Ha avuto una grande diffusione perché alcune coltivazioni geneticamente modificate sono in grado di resistergli: distribuendo il glisofato sui campi si elimina ogni pianta, infestante o non, tranne quella resistente che si desidera coltivare.

Purtroppo questo prodotto viene molto usato anche in ambienti urbani per mantenere strade e ferrovie libere da piante infestanti. Il brevetto della Monsanto è scaduto nel 2001 e da allora il glifosato è prodotto da un gran numero di aziende, la sua produzione nel 2012 ha toccato le 700.000 tonnellate, in quell’anno il mercato mondiale di questo prodotto valeva 5,4 miliardi di dollari, che secondo alcune stime, nel 2019, dovrebbe aver raggiunto gli 8,8 miliardi di dollari, con una crescita media annua del 7,2 per cento.

Dai primi anni Novanta numerosissimi ricercatori si sono occupati di valutarne i potenziali effetti tossici sull’uomo, ma la ricerca scientifica sull’argomento è da sempre stata oggetto di aspri dibattiti circa la sua effettiva imparzialità; nel 2017, il “Guardian” ha infatti scoperto che molte parti del rapporto dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) per la valutazione dei rischi dell’uso del glifosato, erano state esattamente copiate dalle richieste di rinnovo dell’autorizzazione da parte delle aziende che lo producono. La stessa Monsanto ha rivelato la corruzione di scienziati e giornalisti per la realizzazione di studi negazionisti sui danni del glifosato.

La prima dichiarazione di un Ente pubblico sulla tossicità del glifosato porta la data del 1993, quando l’EPA statunitense classificò il glifosato come gruppo E, evidenziando la mancanza di prove per la cancerogenicità nei confronti dell’uomo. Tuttavia da quel momento ulteriori studi, i cui risultati sono inclusi nella Monografia 112 sul glifosato dell’Agenzia per la ricerca sul cancro (IARC), pubblicata il 29 luglio 2015, hanno convenuto sulla cancerogenicità del glifosato e hanno portato alla sua inclusione nel gruppo 2° (probabilmente cancerogena per l’uomo).

L’Autorità europea per la sicurezza alimentare ha invece espresso un giudizio più accomodante, ma le sue valutazioni appaiono oggettivamente troppo simili a quelle fornita dalla ditta produttrice. A novembre del 2017, il Comitato d’appello dell’Unione Europea, formato da rappresentanti di tutti gli stati membri, ha approvato il rinnovo per altri 5 anni della licenza di commercializzazione del glifosato. L’Italia insieme alla Francia ha espresso parere negativo, mentre la Germania, paese della Bayer/Monsanto, ha votato a favore.

Il 2018 è stato un anno molto importante per il futuro dell’utilizzo di principi attivi di derivazione chimica in agricoltura. Infatti un tribunale della California ha condannato il gruppo Monsanto/Bayer, produttore dell’erbicida RoundUp, formulato chimico a base di glifosato, a un risarcimento di 252 mln di euro, successivamente ridotti a 52, a favore di un giardiniere di 46 anni affetto dal linfoma Hodgkin e che per motivi di lavoro ha utilizzato il diserbante per molti anni. La sentenza ha aperto la strada ad altre migliaia cause di soggetti che accusano la multinazionale tedesco/americana di non aver informato sui rischi derivanti dall’utilizzo dell’erbicida. Da quella sentenza sono state intentate oltre 125 mila cause di risarcimento, che hanno convinto la Bayer/Monsanto a pagare più di 10 miliardi di dollari grazie ad accordi extragiudiziali raggiunti con 25 studi legali. Altri 1,25 miliardi sono già stanziati per quelli che dovessero verificarsi in futuro. I risarcimenti saranno erogati tra la seconda metà di quest’anno e il 2021.

In Italia il glifosato si può usare, ma con molte limitazioni, anche se in un rapporto ISPRA relativo agli anni 2011 e 2012, il glifosato veniva definito come uno degli erbicidi più utilizzati nell’agricoltura nostrana. Il 7 ottobre 2016 è entrato in vigore il Decreto del Ministero della Salute, con il quale si stabilisce il ritiro dal commercio di 85 prodotti fitosanitari contenenti la sostanza attiva glifosato, sospettata di essere cancerogena. Inoltre questo diserbante non potrà più essere usato in “parchi, giardini, campi sportivi, aree gioco per bambini, cortili ed aree verdi interne a complessi scolastici e strutture sanitarie” e nella fase di “preraccolta, al solo scopo di ottimizzare il raccolto e la trebbiatura”.

Commetteremmo un grave errore di valutazione se pensassimo che i problemi legati all’utilizzo di glifosato riguardino soltanto gli operatori agricoli o che questo decreto impedisca la possibilità di acquistare prodotti alimentari che lo contengono. Nessuna norma infatti impedisce l’importazione di alimenti o materie prime che ne includono la presenza.

Ad aprile 2016 sono stati resi noti i risultati della presenza del glifosato nel cibo commercializzato in Italia attraverso il test della rivista “Salvagente” effettuato su 50 prodotti circa: tracce del discusso erbicida sono state riscontrate su farine, biscotti, pasta, fette biscottate e corn flakes, anche se in quantità minime ed ampiamente inferiori ai limiti di legge.

In Italia uno dei maggiori pericoli riguarda la potenziale presenza di questo principio attivo nell’alimento principe della nostra alimentazione, ovvero la pasta, per la cui produzione si ricorre massicciamente all’utilizzo di grano canadese, notoriamente disseccato con glifosato per consentirne la maturazione. Per evitare allarmi ingiustificati, nelle more di indicazioni scientifiche univoche, occorrerebbe semplicemente rifarsi al principio di precauzione che è citato nell’articolo 191 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (UE), che recita: “… nel caso in cui i dati scientifici non permettano una valutazione completa del rischio, il ricorso a questo principio consente, ad esempio, di impedire la distribuzione dei prodotti che possano essere pericolosi ovvero di ritirare tali prodotti dal mercato”.

Occorre non ripetere gli errori del passato, non è possibile ignorare e o smentire categoricamente e senza giustificazioni scientifiche un allarme preciso della IARC, come ha fatto la commissione congiunta sui residui dei pesticidi FAO/ OMS. Indipendentemente dagli esiti della ricerca scientifica, l’opinione pubblica è ormai contraria all’uso del glifosato e molti Paesi stanno adottando norme restrittive e divieti. Purtroppo i colossali interessi economici in gioco compromettono una imparziale analisi sugli effettivi effetti di questi composti e il confine tra ricercatori onesti e quelli “assoldati” è molto labile ed è spesso determinato dal risultato degli studi scientifici, a seconda se propendano per tossicità o non tossicità. Mai come in questo caso il problema della ricerca indipendente si palesa nella sua necessità e improcrastinabilità, uno dei principi inderogabili in uno Stato di diritto.

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