QUEL METOO A 70 ANNI CONTRO BOB DYLAN

di JOHNNY RONCALLI – Prima considerazione, le rockstar non sono e non sono mai state esempi di virtuosità. Forse lo saranno da domani in avanti, non lo posso sapere, ma dubito.

Sesso, droga e rock’n’roll è lo stantio e logoro trittico che ha mascherato la banalità delle imprese di infinite stelle del pop e del rock fin dagli anni ’50. Non che prima fossero stinchi di santi, nell’ambiente del jazz sesso e droga erano virtù cardinali già nella prima metà del secolo.

A scanso di equivoci, parlo da appassionato, maniaco delle evoluzioni della musica popolare di tutto il Novecento, ma anche appassionato spero libero e poco incline alla facile mitizzazione, consapevole che la patina di eversione che ricopre la maggior parte delle imprese di molte stelle della musica rock, anche le mie stelle, di fatto era ribellismo al servizio, più o meno consapevole, delle grandi compagnie discografiche. Non fosse altro che non c’è classico del rock che non sia stato prodotto e distribuito dalle grandi major, della serie tu mostri le terga, spacchi le chitarre, scandalizzi i benpensanti, ti droghi, eventualmente muori, nel frattempo noi guadagniamo.

La faccio breve breve e qualche specifica la dovrei fare, ma la sostanza rimane, se esistono un vero e duraturo antagonismo e una vera controcultura, non risiedono certo nelle biografie dei grandi nomi del pop e del rock. Parliamo insomma di società dello spettacolo, punto.

Vengo all’attualità, Bob Dylan, dunque. Intransigente, pioniere, voce di una generazione, ma in realtà più di sé stesso per sua ammissione, infine Nobel. Comunque sia, nemmeno lui uno stinco di santo e storicamente la personificazione dell’egocentrismo.

Fresca è la notizia dell’accusa di abuso psico e fisico ai danni di una dodicenne, abuso che avrebbe avuto luogo presso il Chelsea Hotel, a New York, nel 1965. Il Chelsea Hotel è un po’ il simulacro della perdizione nell’immaginario bohémien, negli anni ha ospitato cantanti, attori, scrittori, sballati tondi e ovali, ed è lì che avrebbe avuto luogo il misfatto. Misfatto che si sarebbe protratto per sei settimane, sostiene l’accusatrice, oggi intorno alla settantina pare, con il signor Robert Allen Zimmerman (nome originario del signor Dylan), allora ventiquattrenne, che prima l’avrebbe stordita e poi avrebbe abusato di lei a oltranza.

Ora, va bene il metoo, va bene cavalcare l’onda, va bene pure l’onda lunga, va bene anche l’ultima carrozza per un barlume di notorietà se fosse, ma 56 anni dopo?

Cara signora J.C., queste le iniziali dell’accusatrice, non conosco nulla della sua biografia e niente trapela al momento, ma, nell’ignoranza contingente, io credo che le sue accuse dovrebbero rivolgersi altrove, ammesso che il fatto sussista.

Non parliamo di società tribali con usi e costumi lontani dalle convenzioni occidentali, parliamo di New York, sia pure di New York negli anni sessanta: ingenuamente, possiamo sapere cosa diavolo ci faceva una dodicenne per sei settimane al Chelsea Hotel, in balia dei più sciroccati tra gli sciroccati del mondo dell’arte? Geniali talvolta, ma pur sempre sciroccati.

Non sarà che la dolorosa accusa retroattiva dovrebbe rivolgerla più che altro ai propri genitori o a chi avrebbe dovuto essere tutore della sua innocenza, almeno per qualche anno ancora?

 

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