QUEI RAGAZZINI PAZZI CHE VIVONO (BENE) SENZA SMARTPHONE E SOCIAL

Ci sono questi ragazzi adolescenti, a Brooklyn, che sono proprio un caso bizzarro e anacronistico. Si fanno chiamare “The luddite club”, memori dei luddisti della prima rivoluzione industriale, ribelli alla tecnologia, alle macchine, a tutto quello che potesse minacciare la centralità dell’uomo, nel lavoro innanzitutto.

Il tratto distintivo è lo smartphone, nel senso che non ce l’hanno, ma ancora più distintivo è che lo smartphone l’hanno avuto e poi abbandonato. A diciassette anni non è una scelta banale e semplice, è una messa al bando di sé stessi nella comunità dei coetanei.

Un telefono ce l’hanno in realtà, ma senza connessione internet, uno di quelli vecchia maniera che servivano giusto a chiamare e scrivere messaggi: sembra la preistoria, ma era ieri. Si chiamano, si danno appuntamento e tutto il resto è concreto e tangibile, inteso come opposto al virtuale.

Le parole sono sostanza, non solo forma, se oggi uno scrive ‘social’ tutti immediatamente pensano a Facebook, TikTok, Twitter, Instagram, non al primo significato che tutti conosciamo e questo avviene anche nei Paesi anglosassoni, francofoni o ispanici, nei quali la parola è priva della desinenza vocalica e potrebbe indurre al dubbio, vorrà dire social come sociale o social come Facebook?

Li chiamano antisocial, chi in un senso, chi nell’altro, ma non sono antisociali nemmeno un po’. Si vedono, si incontrano, al parco, chi con un libro, chi con la chitarra, chi con nulla, e parlano oppure stanno zitti, immagino: anche stare con qualcuno in silenzio è una forma di socializzazione, non tra le meno nobili, non tra le più facili e certo preclusa a chi concepisce l’incontro prevalentemente a distanza

Ci si dà appuntamento, diciamo al parco intorno alle tre del pomeriggio. Qualcuno sarà in ritardo, qualcuno arriverà in anticipo, ma nessuno ingannerà l’attesa tra sé e sé con gli occhi incollati allo schermo. Si può anche scrutare quel che accade intorno, ad esempio, vedi un po’ che impensabile meraviglia.

Si aspetta, magari qualcuno di loro ancora scrive lettere e le imbuca, e quale emozione attendere la risposta, senza sapere quando esattamente arriverà, senza alcuna spunta a dirci che il destinatario ha letto il messaggio, ma forse qui sto un po’ romanzando, sto dando voce a una speranza.

Nemmeno è un caso forse che un punto di ritrovo sia sui gradini della biblioteca, il luogo dove cercare le informazioni, tra le pagine di un’enciclopedia o di un manuale o di un libro insomma: entrare, cercare, consultare, leggere, prendere appunti o semplicemente tenere a mente.

Potrebbero essere queste le emozioni forti che ha senso cercare in questo tempo sfacciato e invadente, e anche se la bolla prima o poi esploderà, sarebbe un delitto ignorare che ci sono persone, giovanissime persone, che si interrogano, che fanno scelte e che si oppongono alla corrente impetuosa. E più controcorrente di così oggigiorno proprio non si può, in particolare alla loro età. A dirla tutta, è un modo – un mondo – che a tanti di noi sopra i trent’anni ricorda vagamente qualcosa…

Per saperne di più, direttamente da loro, non c’è altro modo che incontrarli, non è possibile raggiungerli via internet evidentemente, bisogna stanarli nei loro covi, nelle loro trincee, se non fosse che l’azione suona un po’ come la classica rottura di uova nel paniere.

Può essere che anche scriverne – come sto facendo io in questo momento, ma soprattutto come ha fatto il “New York Times” e poi via via tanti quotidiani nazionali sparsi per il mondo – sia uno delle possibili vie per rompere il giocattolo, ma in fondo è una prova che va affrontata, un luddista non si intimidisce per un po’ di baccano.

Anche perché cercherà di starne alla larga, finché potrà.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *