Spostiamoci a Est di diecimila chilometri, o giù di lì: tanto, lo dobbiamo fare solo con l’immaginazione e dunque non trasgrediamo ad alcun decreto governativo. Siamo a Hong Kong: la regione autonoma della Cina ha da tempo limitato i contatti con l’adiacente Repubblica popolare. Chi entra, viene sottoposto a quarantena. I cinesi non sono gli unici a vedersi imporre questo trattamento: a far loro compagnia gli iraniani e – avete indovinato – noi italiani. Per chi dispone di una residenza nella città, la quarantena viene concessa a casa, per tutti gli altri il governo locale ha costruito in quattro e quattr’otto degli speciali “campi”, formati da casupole prefabbricate nelle quali gli ospiti in osservazione trascorrono i fatidici 14 giorni di attesa.
Per i più, naturalmente, si tratta di una seccatura, necessaria ma pur sempre disagevole. Per altri, stupirà dirlo, è manna dal cielo.
I giornali locali hanno infatti scoperto un curioso fenomeno, limitato ma interessante: alcuni individui, probabilmente a bassissimo reddito se non addirittura homeless, sia di Hong Kong sia dei centri adiacenti – l’enorme Shenzhen (dodici milioni di abitanti) è appena al di là del confine – hanno trovato il modo di approfittare della situazione. A loro, basta presentarsi all’ingresso di Hong Kong, raggiungibile dalla Cina attraverso una fitta rete di collegamenti ferroviari locali, per essere immediatamente consegnati all’alloggio di quarantena.
Se per i più tale sistemazione significa fast food, brande spartane, televisione in comune e noia infinita, per costoro si tratta di una vacanza al Ritz: lenzuola pulite, pasti caldi, doccia e televisione via cavo gratis. Tanto è vero che ne approfittano anche i locali. Prendono un treno diretto in Cina, scendono alla prima stazione e tornano indietro: il gioco è fatto. Il campione del mondo di quarantene auto-inflitte ha già ripetuto l’operazione per tre volte.
Gli addetti ai “campi” raccontano che tali personaggi si comportano proprio come normali ospiti d’albergo: al “check-out” portano via saponette, flaconi di shampoo, qualche salvietta e perfino gli asciugacapelli.
Non sappiamo se da questa storia sia lecito trarre una morale. Che tutto il mondo è paese, forse? Oppure che anche in circostanze tragiche l’umanità continua a comportarsi secondo la sua natura: accanto agli slanci di solidarietà, non dimentica l’egoismo e il calcolo personale. Potrebbe essere un’annotazione amara ma a pensarci bene non lo è: anche nella tempesta, in fondo, rimaniamo noi stessi. E noi stessi è tutto ciò che abbiamo.