PROVERBIO CINESE: FARE SOLDI SI’, PENSARE NO

di MARIO SCHIANI – Sono passati circa quarant’anni da quando Deng Xiaoping informò i cinesi che “arricchirsi è glorioso”. Una frase oggi all’origine della narrativa legata al “miracolo cinese”, la grande progressione economica che, incominciata con timidi passi all’inizio degli anni Ottanta, ha portato la Cina allo status di superpotenza mondiale. Slogan talmente noto che Deng potrebbe non averlo mai pronunciato. In effetti, ce n’è riscontro solo nella stampa e nella letteratura occidentale, non in quella cinese. Ma come ci insegnò John Ford in “L’uomo che uccise Liberty Valance” (e anche nel meno citato “Fort Apache”), “quando la leggenda diventa fatto, stampate la leggenda”.

Deng Xiaoping, che abbia pronunciato quella frase o meno, è dunque il leader cinese consegnato alla Storia per aver acceso la scintilla dello straordinario successo economico del suo Paese (e molto meno per aver svolto un ruolo centrale nella repressione del 1989), quel successo che, oggi, il presidente “assoluto” Xi Jinping sventola con orgoglio sotto il naso del mondo.

Eppure, con il passare del tempo, anche gli slogan più azzeccati, anche le frasi storiche meglio scolpite nella coscienza collettiva, rischiano di logorarsi. Sulla base del principio che “arricchirsi è glorioso”, la Cina in questi anni ha prodotto più milionari di qualunque altro Paese. Un successo tale che, probabilmente, ha dato alla testa ad alcuni di loro. Qualcuno, infatti, si deve essere illuso e ha pensato che il denaro, oltre alla felicità, potesse comprare anche il diritto ad avere un’opinione, magari diversa da quella ufficialmente adottata dal Partito.

E’ il caso di Sun Dawu, il più grande produttore agricolo privato del Paese, un imprenditore spesso presentato come “idealista” e “utopista” per aver organizzato a beneficio dei suoi dipendenti un villaggio completo di scuola, stadio, biblioteca e ospedale. Sun a più riprese ha criticato il governo sul suo sito web, arrivando a denunciare l’insabbiamento dell’epidemia di peste suina. Multato e rimultato, costretto a emendare e chiudere il sito, accusato di uso improprio di fondi pubblici e di guadagni illegali, Sun ha accumulato negli anni una serie di conflitti con l’autorità, anche se lui si è sempre proclamato comunista, pur precisando di gradire, accanto a questa etichetta politica, l’aggettivo “confuciano”.

Comunista confuciano o meno, il signor Sun non corrisponde comunque al tipo di comunista gradito dal Partito. Nel giorni scorsi gli è piovuta sul capo la condanna più pesante e, forse, definitiva: 18 anni di carcere per aver “sollevato controversie e provocato disordini”, la tipica accusa vaga e “one size fits all” che la Cina sta applicando a piene mani anche nella riottosa Hong Kong. A 67 anni, Sun può ben temere di finire i suoi giorni in carcere, per la sola ragione di aver osato pensare in autonomia invece di limitarsi a essere grato al partito che gli ha permesso di arricchirsi.

In questo atteggiamento sta la dimostrazione che, ancora oggi, nonostante i meccanismi capitalistici tollerati e anzi incoraggiati in gran parte del Paese, le autorità cinesi fanno coincidere se stesse con lo Stato e lo Stato con un’entità assoluta e infallibile, nella quale è possibile operare solo se non ci si sottrae mai al suo sguardo, a volte paternalistico, a volte minaccioso, comunque costante e incapace di spontanea elaborazione della critica. Tutto cambierà quando qualcuno proporrà uno slogan davvero rivoluzionario: “Pensare è glorioso”. Ma nella Cina di oggi non sembra probabile che ciò possa accadere.

 

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