Era la fine del 1977 o forse l’inizio del 1978, poco importa. Quel che importa è ricordare lo stato d’animo di quel momento: l’emozione, la gioia dell’anticipazione e, a insaporire il tutto, perfino un discreto senso di colpa. Una miscela emotiva che saliva in superficie, allora, all’acquisto di ogni nuovo album (ma ai tempi si diceva ancora “ellepì”).
Quello appena contrabbandato in casa, però, era di un’altra categoria: scottava come refurtiva o, peggio, come una bomba a orologeria. Tanto è vero che procedetti a sfilarlo dalla copertina e a poggiarlo sul giradischi con la cautela di chi maneggia nitroglicerina. Già avevo visto gli sguardi sospettosi dei genitori mentre transitavo in corridoio senza riuscire a nascondere del tutto la copertina: un quadrato giallo con grosse lettere ad annunciare il titolo e il nome del gruppo – “Never mind the bollocks Here’s the Sex Pistols” -: lettere presentate come fossero ritagliate da un giornale per comporre una lettera anonima. Ai loro occhi una combinazione del genere non annunciava niente di buono. E se non capivano il significato di “Never mind the bollocks”, che per la verità rimase a lungo oscuro anche per me, la presenza della parola “Sex” escludeva potesse trattarsi di un prodotto edificante o anche soltanto utile.
Molto peggio fu quando la puntina affrontò i primi solchi: il giradischi tossì suoni metallici e urla convulse certo provenienti dalla gola di un indemoniato. L’invito, istantaneo e perentorio, fu quello di abbassare il volume, nient’altro, ma nel tono c’era tutta la disapprovazione che si potrebbe rivolgere a un figlio che ha appena inventato l’ordigno perfetto per dare sui nervi ai genitori. Non solo, anche per insinuare in loro il dubbio che, beandosi nell’ascolto di canzoni come “Anarchy in the UK”, “No feelings” e “Submission”, il pargolo fosse un potenziale criminale, un pericoloso teppista e, di base, un perfetto imbecille. Meglio sarebbe andata se avessi portato a casa altri album di quella stagione, come “Heroes” di David Bowie o “News of the world” dei Queen. Meglio sì, ma di poco: perché alle loro orecchie gli elementi comuni della musica ascoltata dai figli – fosse sotto l’insegna dei Black Sabbath come di Umberto Tozzi – era la generale bruttezza, l’intrinseca stupidità e la sottintesa perversione morale.
Ho ripensato a “Never mind the bollocks”, che peraltro ogni tanto ascolto ancora, leggendo la notizia che in venti anni la musica italiana, quella da classifica, ha compiuto una quasi completa transizione dal pop e dal pop-rock al trap, al reggaeton e all’hip hop.
“Ma che musica ci propinano?” si chiede il sito Dagospia riportando i dati di ascolto dal 2000 al 2023, ricavati da uno studio effettuato su canali Spotify e YouTube: una domanda nella quale ritrovo la disapprovazione e perfino l’esasperazione dei miei genitori davanti alla minaccia portata dai Sex Pistols. Ci propinano, è la risposta, la musica che più ci irrita, presentata da gente che si atteggia e si veste nei modi che più ci paiono sconvenienti, stupidi e minacciosi.
La svolta, dice lo studio, arriva – almeno per l’Italia – nel 2014 con il successo del brano “Magnifico”, presentato da Fedez con Francesca Michielin (o meglio, da Fedez “featuring” Francesca Michielin): da allora, tutta una slavina rap e trap con l’eccezione rock, se vogliamo, dei Måneskin. La ragione è che la musica rappresenta il primo veicolo che porta l’adolescente verso una sua forma di indipendenza. E se indipendenza deve essere, allora è meglio che sia addirittura opposizione, sfida, perfino dileggio.
Così, ieri, era per i Sex Pistols, così è oggi per tutta la produzione trap e affini. Se poi vogliamo parlare di qualità, di peso culturale, di rilevanza sociale e perfino storica, allora ci toccherà aspettare una quarantina d’anni o anche di più: solo allora sapremo se tutta l’ondata hip hop avrà lasciato qualcosa di paragonabile a “Never mind the bollocks”. Io e Johnny Rotten ne dubitiamo, ma ormai siamo soltanto due vecchietti sospettosi.