POMPEO, RINA E IL LORO BIMBO CON IL MITO DEI BOSS: ECCO I NUOVI “MOSTRI”.

Mentre a cicli più o meno regolari torna ad affiorare il dibattito sulla scuola pubblica e su quella privata, sui limiti della seconda rispetto alla prima, e mentre il livello dell’istruzione nel nostro Paese non riesce a scollarsi dagli ultimi posti nella classifica europea, c’è chi prende la questione nelle sue proprie mani e provvede da sé.

Nasce da queste premesse il viaggetto che una coppia foggiana, composta da Pompeo e Pina, si è concessa in Sicilia portandosi appresso il figlioletto. Terra di enormi risorse culturali, come sappiamo, la Sicilia: è lecito pensare che il piccolo, vittima come tanti delle insufficienze del sistema scolastico nazionale, abbia tratto giovamento dall’esposizione ai capolavori dell’arte, alle testimonianze della storia e agli incanti della Natura che l’isola offre a ogni pie’ sospinto.

Tuttavia, libertari e indipendenti, Pompeo e Pina non hanno optato per la solita Valle dei Templi, per i capolavori di Antonello da Messina e neppure per le meraviglie architettoniche arabo-normanne di Palermo. No, i due, consci che ai figli bisogna assicurare al più presto le basi di una solida e duratura impostazione culturale, hanno preferito portare il frutto della loro carne a Corleone, per sostare in commosso raccoglimento sulle tombe di Salvatore Riina e Bernardo Provenzano.

Commosso raccoglimento, a guardar bene, non è l’espressione giusta: come usa di questi tempi, nessuno si raccoglie e nessuno si commuove senza aver prima informato il mondo intero della sua iniziativa. E’ infatti grazie ai post su Facebook di Pompeo e Pina che sappiamo tutto o quasi della graziosa educazione criminale imposta al piccolo.

Pompeo, un nano di fronte a delinquenti della portata di Riina e Provenzano, ma comunque anche lui pregiudicato per reati contro il patrimonio, a dimostrazione del detto che all’esempio occorre far seguire l’azione, si è fatto riprendere dalla moglie davanti alla tomba del secondo, che ha definito “grandissima persona”. Lei, più sentimentale, ha invitato tutti a deporre fiori sulla tomba di “zio Totò” (dove con Totò si intende Riina e non il principe De Curtis) mentre il figlio, amorevolmente incoraggiato, ha baciato con trasporto le fotografie apposte sulle lapidi dei due boss mafiosi.

Disgusto e riprovazione per tanta deviazione morale sgorgano naturali davanti a siffatta prova genitoriale. C’era un tempo in cui i genitori si preoccupavano se nelle camere dei figli vedevano comparire i poster dei Black Sabbath o di Marilyn Manson: oggi papà e mamma incorniciano i ritratti dei più sanguinari capimafia ed evidentemente ardono di speranza perché i figli possano seguire le loro orme che conducono – ricordiamolo – alla latitanza e all’ergastolo quando non alla morte prematura per arma da fuoco o per altri ingegnosi metodi di soppressione.

Nel comportamento grottesco dei due coniugi foggiani che, deamicisianamente, potremmo definire “infami”, vorremmo individuare un caso limite, una deviazione altrimenti impercorribile, una singolare stortura della cronaca. Tuttavia, non saremmo del tutto onesti se non vedessimo nella loro venerazione per i capi criminali – ridicola quanto agghiacciante – l’ingigantirsi di un difetto nazionale forse più diffuso di quel che ci piace credere. Il difetto che, nel piccolo e nel privato, a volte coltiviamo anche noi: il disprezzo non tanto per lo Stato quanto per le regole del vivere civile, l’ammirazione sottocenere per chi quelle regole le infrange o le piega a suo vantaggio, la tentazione di sottomettersi al prepotente al fine di ottenere sicurezza e vantaggi.

Pompeo e Rina sono personaggi che Dino Risi avrebbe volentieri inserito nella galleria dei suoi “Mostri” cinematografici, ma noi sappiamo bene che quei mostri ci assomigliavano, che qualcosa di loro c’era anche in noi, non tanto da compromettere del tutto la nostra decenza, ma abbastanza per inquinarla. Quanto al figlioletto, non resta che una speranza e ce la suggerisce proprio il film di cui sopra.

Nel primo episodio, il bambino Ricky Tognazzi, educato dal padre Ugo alla furberia, al disprezzo per gli altri e alla cura del proprio esclusivo interesse, finisce per far fuori proprio il suo mentore, il padre corruttore. Non ci auguriamo accada lo stesso a Pompeo e Rina, ma, si sa, i figli spesso traggono ispirazione dalla ribellione nei confronti dell’autorità dei genitori: non è dunque impossibile che, un giorno, quel bambino costretto a insudiciarsi le labbra sulle foto dei boss, si trasformi in un inflessibile magistrato o in un valoroso poliziotto.

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