PERDERE UN NOSTRO CENTRO DI GRAVITA’ PERMANENTE

di TONY DAMASCELLI – Discretamente ha concluso. Come la sua voce che dell’isola si portava appresso il sole caldissimo e la terra arida, la storia antica e i colori mai stinti.

Ho capito, infine, la grandezza di Francesco, detto Franco per volere di Giorgio Gaber, leggendo lo sfogo di tale Murgia, detta scrittrice anche di tendenza e seguaci: ”.. vai a leggerti i suoi testi, sono minchiate assolute, citazioni su citazioni senza significato reale..”.

Effettivamente per gente come lei risulta aspro comprendere il significato delle minchiate, pur esibendole o frequentandole quotidianamente, ma non mi sembra opportuno concedere più di righe due alla suddetta omonima di una fetta di terra pugliese e lucana.

Battiato, dunque, l’uomo che ci fece scoprire il nostro centro di gravità permanente, colui il quale aveva previsto l’era del cinghiale bianco e che a Beethoven e Sinatra preferiva l’insalata e a Vivaldi l’uva passa, che gli dava più calorie.

Cicciuzzo si era innamorato della nebbia di Milano come mille altri picciotti sbarcati a cercare lavoro, quella nebbia che Luciano Bianciardi così descriveva e pare di ascoltare i versi di Francesco Franco: «..una cupola grigia e fuligginosa sopra la città (…) La chiamano nebbia, se la coccolano, se ne gloriano come di un prodotto locale. E prodotto locale è. Solo, non è nebbia (…). È semmai una fumigazione rabbiosa, una flatulenza di uomini, di motori, di camini, è sudore, è puzzo di piedi, polverone sollevato dal taccheggiare delle segretarie, delle puttane, dei rappresentanti, dei grafici (…) è fiato di denti guasti, di stomaci ulcerati, di budella intasate, di sfinteri stitici, è fetore di ascelle deodorate, di sorche sfitte, di bischeri disoccupati”.

Più acido lo scrittore grossetano, più dolce e poetico il siciliano, nato in un posto che ha portato e cambiato tre nomi, Giarre, Riposto, infine Ionia, quasi a mescolare storia cronaca, tradizione e modernità, riassunto e sintesi dell’opera di Battiato, non soltanto come musicista ma anche come pittore, arte che decise di affrontare come esorcismo all’incapacità di disegnare anche “un bicchiere”.

Le canzoni di Battiato non prevedono accendini accesi e chitarre in spiaggia con annesso falò, meglio il silenzio solitario per far scivolare la fantasia e viaggiare sui treni di Tozeur, scoprire Alexander Platz, pedalare sulle biciclette di Forlì, giochi continui attorno alla potenza della nostra lingua, però accennata da una voce gentile, garbata, un sussurro come un cuscino sul quale addormentarsi.

Oggi sulla giostra delle sue cento canzoni salgono passeggeri e vagabondi, fino a ieri dispersi altrove, rabbiosi rapper tatuati di nulla. Abbiamo perso un altro pezzo della nostra esistenza di musica e parole. Come piombo pesa il cielo questa notte, quante pene e inutili dolori (da “Come un cammello in una grondaia”).

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *