Va detto che Zoja non è uno storico. Di professione è uno psicoanalista, di matrice junghiana, ha vissuto e lavorato, oltre che a Milano, a Zurigo e a New York, ed è sicuramente una personalità intellettuale di assoluto rispetto. Non deve sorprendere quindi lo strumentario teorico con cui affronta la questione.
Secondo la sua tesi, in Europa (in Italia e in Germania, in particolare, anche per cause inconsce connesse alla seconda guerra mondiale) la Russia non è percepita solo come rivale, ma come rappresentante di ciò che con la modernità abbiamo perso, e per cui si prova nostalgia. Tale nostalgia sarebbe antecedente al periodo sovietico e riguarda una “dimensione temporale, spaziale, psicologica, originaria per la persona umana, ma sempre più repressa, cancellata, sottovalutata nella quotidianità dell’Occidente”.
Si rimpiangerebbe una certa lentezza, ma anche lo stupore nei confronti dell’immensità, con cui l’umanità ha vissuto per secoli e ben presenti nella cultura russa, a fronte della dimensione frenetica in cui viviamo, risucchiati dal consumismo e dall’effimero. Il passaggio alla modernità dell’Occidente avrebbe rimarcato una divaricazione spazio-temporale, così che attribuiamo alla Russia ciò che abbiamo perso: una dimensione esistenziale lenta e meditativa, con il disinteresse per l’accelerazione.
Ad esempio, Zoja nota come nei confronti del cinema di Andrej Tarkovskiy, pure di valore assoluto, siamo attratti proprio dal ritmo lento e dalle pause, piuttosto che dall’azione. Insomma, l’uomo moderno occidentale è ricco ma non ha mai tempo o spazi a disposizione per sé, mentre i classici russi ci parlavano di immensità e di eternità.
L’argomentazione originale e affascinante di Zoja è che l’attrazione verso la Russia, in virtù della sua cultura del passato, quali che siano i leader e le nefandezze attuali, sarebbe da connettere alla nostra natura profonda e al nostro inconscio, in cerca di riposo dopo essere stati perseguitati dall’“obbligo alla produttività”.
La Russia è il paese d’ “Oriente” più vicino, ci ha messo negli occhi un’affascinante ruralità, un “prova generale” andata male ma che ci ha toccato il cuore (a tutti dico, non solo a quella parte che ne rideva e ne ride), una vastità bianca che sa di immacolata spiritualità. Non è la lentezza, per quanto mi riguarda, è la profondità in un palco sterminato che ha saputo raccogliere il senso di un ramoscello in una foresta immensa. La Russia è l’altra faccia di una medaglia dove nonostante il freddo si sente un tepore diverso, più personale. E quel viso nella sua copertina, già lui solo, senza tutti gli altri suoi colleghi immensi, ci ha dipinto una materia che appartiene a tutti sublimandola in pura vitalità. Putin con tutti gli altri malfattori di prima e di dopo, della Russia e di tutto il resto del mondo non ha nessuna parte in questo, nessuna. Può essere la conseguenza di un ideale troppo radicato forse, ma riguarda altre digressioni ideologiche e politiche. Sto odiando con tutta me stessa la guerra in corso, sono affranta per il popolo ucraino. Ma la guerra non rispecchia necessariamente la cultura di un popolo, altrimenti non l’avremmo fatta mai neppure noi.