Il confronto tra le diverse opinioni su Sinner è destinato a durare. Rilancio la mia, coinvolgendo il nostro Luca Serafini che da queste pagine si spertica, anche giustamente, sulle doti di Jannik.
Me lo voglio tenere stretto pure io, giuro, perché un fenomeno di questo calibro passa una volta ogni tanto. Non sono così fesso da non riconoscere a questo grande sportivo diversamente italiano della capacità rare e preziose come la tenacia, la resilienza, la tecnica, l’impegno e la serietà, tra le tante. Quando vince io sono contento, chiariamolo subito. Il fatto è che non riesce ad acchiapparmi, non riesco ad esultare, non mi viene da scendere in piazza a suonare il clacson, non vado a comprarmi la parrucca carota.
Tanti lo hanno già notato e scritto, il pezzo del Washington Post dice “i suoi colpi sono così regolari da indurre al sonno” e “può picchiare da fondo campo per 4 ore sempre allo stesso modo”. E tutti a dargli contro, i soliti americani che non apprezzano, stiamo spolverando un attaccamento alla bandiera sorprendente, quasi sospetto.
Atteniamoci ai fatti. In uno sport spettacolare come il tennis, la divisione tra giocatori attaccanti “serve and volley” e i “pallettari” da fondo campo è sempre stata netta. I primi offrono allo spettatore momenti di eccitazione pura attraverso una tecnica sopraffina, i secondi li apprezzi per l’abnegazione e il sacrificio. La differenza tra Federer e Nadal, per parlare di mostri sacri, sintetizza alla perfezione il concetto. La forza e lo stile di Jannik si basano su potenza, precisione e regolarità. E’ il tennis moderno, si dirà, in cui la preparazione tecnica e fisica ha preso il sopravvento su estro e talento. Lui è Klaus Dibiasi, il perfetto angelo biondo, ma tanti tifavano per l’imperfetto e umano Giorgio Cagnotto, lui è più come Thoeni che come Gros, sempre in lotta furiosa con i paletti.
A parte l’aspetto puramente sportivo, ci sono poi i comportamenti del nostro. Un bravo ragazzo, certo, innegabile: mai un atteggiamento fuori posto, le parole dette giuste, si ricorda di fare la dedica alla zia, è un esempio per i ragazzi, non si monta la testa ecc. ecc.. Tutto ciò, purtroppo, contribuisce a non scaldare la passione, ma certamente fa salire l’apprezzamento consapevole e ci fa addirittura dire che è così che vorremmo essere. Sul serio? Molliamo in un sol colpo e improvvisamente lo stereotipo di genio e sregolatezza che è nel nostro DNA da secoli? Non ci credo proprio, penso piuttosto ad una proiezione razionale e virtuale del profilo perfetto che mai potremo raggiungere, se siamo un po’ realisti.
Poi, c’è il tema delicato delle sue scelte. Non mi interessano né la sua contestata residenza, né la sua vita privata, mi sta più a cuore la vicenda della rinuncia alla Davis precedente e alle Olimpiadi. Non mi è andata giù e mai la riuscirò a dimenticare. Anche adesso per le convocazioni ai primi incontri della Davis non sarà magari responsabile al 100%, però leggo che lui e Musetti scenderanno in campo più avanti (e tutti facciamo gli scongiuri di arrivarci, più avanti). Perché? Non si può sprecare il suo talento o la sua forma per partite comunque importanti per l’Italia? Appartiene a un’élite così fragile da centellinare? Ct Volandri, sicuro? Eccoci, ci risiamo, riaffiora giocoforza l’idea che Sinner non sia uno di noi, ma una razza a parte, riparte l’allontanamento emotivo.
C’è un popolo intero che ha nel cuore l’urlo di Tardelli, gli occhi di Schillaci, la veronica di Panatta, le guasconate di Valentino e di Tamberi, l’esuberanza di Tomba, il coraggio di Zanardi. Non ci piacevano i calcoli di Lauda ma la follia di Villeneuve sì, lo sport è anche istinto e coinvolgimento, è l’idea di fare l’impresa nonostante i pronostici e la pianificazione, c’è bisogno di trasporto e immedesimazione, pathos ed emozioni. Io sto decisamente da questa parte e tanti saluti allo “sportingly correct”.