di FABIO GATTI – A ciò che si ha sempre davanti agli occhi, o nelle orecchie, non si fa caso, se non in particolari condizioni come la vacanza, che con i suoi ritmi lenti ci ricorda quello che la frenesia della quotidiana routine ci fa dimenticare. Capita così che solo nel silenzio estivo si possa apprezzare il suono delle campane, nelle quali rimbomba la storia d’Italia, la tradizione di un Paese fatto di borghi e campanili orgogliosi di difendere la propria autonomia e di ostentare il proprio potere, che passa, prima di tutto, dalla capacità di essere padroni del tempo, come hanno sempre capito tutti i movimenti grandi, nel bene e nel male: da chi parlava di “era fascista” contando gli anni dalla marcia su Roma, ai rivoluzionari giacobini che inaugurarono il calendario della Dea Ragione. Le campane rispondono, in miniatura, allo stesso desiderio: non a caso Guareschi ha immortalato le tragicomiche lotte tra don Camillo e Peppone, tra autorità religiosa e potere politico, per organizzare la vita del paese secondo rintocchi unici e inimitabili.
Se la storia d’Italia riecheggia nelle campane, anche nella letteratura se ne percepiscono i rintocchi, soprattutto nelle pagine più legate alla dimensione del piccolo borgo: dal villaggio del sabato leopardiano, dove la campana annuncia la festa imminente (“Or la squilla dà segno / della festa che viene; / ed a quel suon diresti / che il cor si riconforta”), al Mezzogiorno pascoliano, scandito dai “rintocchi lenti” della campana che riempiono la campagna con “un’ondata di riso”.
È curioso che le campane, così legate al piccolo centro, siano state ereditate dalle grandi metropoli della modernità, dove i rintocchi vengono dispersi e silenziati, ma dove il campanile di quartiere sopravvive come residua traccia di una vita comunitaria ormai sfilacciata: alla campana collettiva si sostituiscono i molti orologi individuali, con un passaggio che sancisce il frazionamento della società in tante monadi, “ognuna in fondo persa – direbbe Vasco – dietro ai fatti suoi”. Per chi suona la campana?, si chiede Hemingway intitolando il suo romanzo forse più incisivo, così come se lo domandano le comari di paese, ansiose di pronunciarsi su vita, morte e (eventuali) miracoli del vicino che ormai non è più: inutilmente il poeta John Donne le ammonisce a “non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: essa suona per te”, perché “nessun uomo è un’Isola, un intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra” e così “ogni morte d’uomo mi diminuisce, perché io partecipo dell’umanità”.
Il rintocco può essere funesto o lieto, come le vicende che accompagna: le campane possono suonare l’ora della riscossa, come in Fontamara di Silone, dove i cafoni dell’immaginario borgo abruzzese si radunano per ribellarsi ai soprusi dei ceti dominanti, o come accadde nel 1869, quando per protestare contro l’odiata tassa sul macinato i contadini del Nord Italia si riversarono per le strade al suono delle campane, soffocati poi dalla dura repressione del generale Raffaele Cadorna, che si lasciò alle spalle 250 morti. Le campane sono state addirittura in grado di mobilitare il popolo in loro difesa, come avvenne nell’effimera esperienza della Repubblica Romana (1849), quando il tentativo di sequestrarle per fonderle provocò un’agguerrita protesta dei romani, che costrinse il governo a un’inevitabile marcia indietro.
Difficile pensare che qualcosa di simile possa accadere oggi, quando il rintocco delle campane si sente ma non si ascolta, e la loro musica appare come un “piccolo infinito scampanio, dietro un vel d’oblio” (G. Pascoli, Festa Lontana), anche se basta un frammento di silenzio o un attimo di distrazione per essere improvvisamente richiamati dall’eloquente vibrare delle campane. Strumento scordato, ma per niente stonato.