Sogni strani. Ti agiti, ti svegli pensando che si sia trattato di un incubo. E’ roba vera, verissima. Pensieri cattivi, dove ho sbagliato non devo più commettere l’errore. Mi lavo le mani. Non basta. Anche il respiro può uccidermi.
Strade deserte, rivedi un film del Settantuno, era in bianco e nero, prima puntata de “Ai Confini della realtà”, titolo “La barriera della solitudine”. Un tizio si aggira per le vie di un paese di provincia uguale a mille altri nelle pellicole americane. Non c’è ombra di vita eppure al bar il juke box spara la musica e su uno dei fuochi della cucina, dietro il bancone, una caffettiera fuma vapore. Ma non c’è nessuno in quel bar, tavoli e sedie allineate, vuote.
Fuori, la scena è identica, negozi aperti ma senza negozianti, clienti, pubblico, popolo. Uffici di polizia con la porta di ingresso spalancata, tutto in ordine. Squilla il telefono di una cabina, il tizio corre, sudato, sperando di trovare una voce. Invano. Ci prova lui, forma il numero di emergenza, il risponditore automatico risponde che il servizio è disattivato.
Viene la sera, si accendono i lampioni lungo la strada, pure le luci e le insegne di cinema e teatri. E’ il deliro del nulla.
Poi, l’epilogo. L’uomo era stato rinchiuso per un test medico e psichico per un viaggio spaziale, così da controllare le sue reazioni e il suo comportamento all’isolamento totale.
Noi non siamo astronauti, non c’è nessuna capsula. Non è un film.