ORMAI SONO OSCAR FAMOLO STRANO

di MARIO SCHIANI – Se vi è piaciuto “Parasite”, il film coreano mattatore all’ultima edizione degli Oscar, forse vi interesserà sapere che se fosse giunto sugli schermi un anno dopo avrebbe rischiato di non vincere. O perlomeno si sarebbe dovuto accontentare di tre delle quattro statuette effettivamente conquistate, lasciando sul campo la più prestigiosa: quella per il Miglior Film. Questo perché l’Academy, l’istituto che assegna il prestigiosissimo riconoscimento, ha appena introdotto nuove regole per la partecipazione che esigono, come dire, una certa “diversificazione” nei team di produzione delle opere in gara per il premio più ambito. E “Parasite”, film coreano realizzato da coreani, sembrerebbe a occhio e croce ben poco diversificato.

L’Academy ha fatto le cose per bene, mettendo tutto nero su bianco in modo che non ci siano equivoci. In pratica ha stabilito quattro “standard” di “inclusione e rappresentazione”: per concorrere alla categoria di Miglior Film occorre soddisfarne almeno due. Ogni “standard” si riferisce a un aspetto diverso della produzione: ciò che appare sullo schermo (gli attori e il tema trattato), il team creativo (ovvero chi ricopre ruoli che vanno dal regista all’esperto in acconciature), il gruppo di stagisti impegnato a supporto e infine la squadra che si occupa di marketing, pubblicità e distribuzione. Come detto, in almeno due di questi quattro “standard” il film dovrà dare prova di diversità.

E qui l’Academy elenca con una precisione francamente un po’ disturbante le “categorie” dalle quali pescare per realizzare questa diversificazione. I gruppi minoritari per “razza o etnia” sono così indicati: asiatico, africano, ispanico, nativo-americano, hawaiano (o altro abitante delle isole del Pacifico), “altri gruppi sottorappresentati”. Vengono poi imposte quote da attingere tra: donne, LGBTQ+, persone con disabilità cognitive o psichiche.

Gli “standard” sono davvero dettagliati e se volete farvene un’idea precisa potete facilmente reperirli in Rete. La filosofia sembra chiara: favorire la partecipazione di gruppi di minoranza all’industria cinematografica imponendola al livello più alto, quello che ambisce alla partecipazione agli Oscar.

Come accennato, la lettura stessa delle regole lascia non poco perplessi: compone un universo umano fatto di categorie impermeabili, nettamente divise per colore della pelle, generi e gusti sessuali, caratteristiche psico-fisiche. Tutto ciò suggerisce l’idea che l’umanità non potrà mai e poi mai aspirare a un’integrazione che superi queste apparenze: al massimo, le diversità sarà possibile accostarle, non “fonderle”, così che, se non incluso, almeno nessuno si senta escluso. E’ stato fatto notare da osservatori autorevoli che le regole non sono restrittive come sembrano, che i produttori hanno ampi margini per comporre il team di produzione come pare a loro e che comunque il tutto è volto a fin di bene.

Sarà. E’ triste però constatare come, in un settore di massima creatività e di grande ricerca estetica ed emotiva, si ritenga necessario offrire al mondo un’istantanea di inclusione realizzata a forza, tassello per tassello, nella speranza che questo quadretto artificiale aiuti a formarne uno naturale nel resto del mondo. Laddove il miglior cinema cerca la verità, ovvero l’umanità nei suoi angoli più remoti e rivelatori, ponendosi come il media perfetto per la trasmissione dell’empatia, dietro la macchina da presa si affida invece a una sorta di chimica da laboratorio per distillare un perfetto quanto sintetico composto multiculturale.

Se poi si pensa che gli Oscar sono una competizione, il concetto suona ancora più strano: laddove conta l’eccellenza, è davvero importante occuparsi del colore della pelle e dei gusti in fatto di partner sessuali di chi la persegue? E’ vero che quella degli Academy è una gara sui generis, non precisamente paragonabile alle competizioni sportive, ma vorrei vedere la faccia dell’incaricato olimpico che, ai prossimi Giochi, sarà costretto a pregare Usain Bolt perché rallenti: “Scusi, sa: quest’anno è previsto che vinca un eschimese”.

Bisognerebbe poi far notare all’Academy che le sue stesse statuette sono tutto meno che diversificate: rappresentano “un cavaliere che impugna una spada da crociato” (alla faccia dell’allusione sessuale e dell’inclusione religiosa) e si presentano in un uniforme color oro.

E pensare che il cinema, anche in tempi di web, videogiochi e computer vari, è ancora il veicolo più potente ed efficace che abbiamo per riunire l’umanità sotto uno stesso tetto. Quel veicolo che dai tempi dei Lumière trasmette emozioni e ci fa sentire vicini agli eroi di John Ford e a quelli di Kurosawa, ai neri dei “ghetti” di Spike Lee e ai tormentati scandinavi di Bergman, ai clown di Fellini e perfino agli angeli di Wenders.

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