ORMAI PER RICORDARE I MINISTERI SERVE IL VOCABOLARIO

Parliamo di parole, quelle che definiscono i dicasteri dei governi, di quello nuovo come di quelli passati.

Nel tempo, ma in particolare negli ultimi decenni, le denominazioni si sono fatte sempre più intraprendenti, qualcuno dirà identitarie, ma vorrei inizialmente sganciarmi dall’analisi che definisce le parti, se mai fosse possibile.

Alcuni dicasteri, nel primo governo del 1945, il primo governo De Gasperi, sono quelli che un po’ tutti ancora oggi ci ricordiamo, quelli che conosciamo e abbiamo imparato a considerare essenziali per il funzionamento del Paese, ma con qualche eccezione, perché per quanto si possa ironizzare su alcune etichette appiccicate ai ministeri, ogni epoca inevitabilmente ha priorità diverse.

A fianco di Affari esteri, Finanze, Grazia e Giustizia, Interni, Tesoro e via dicendo, troviamo inevitabili gabinetti dedicati a Guerra, Aeronautica, Marina, Africa italiana, Ricostruzione, Assistenza postbellica. Questo per dire che fin dall’inizio la Repubblica ha usato discernimento e arbitrio in relazione alle esigenze dello spazio e del tempo.

Ne deriva che alcune delle denominazioni dei dicasteri dell’ultimo governo, per quanto sulle prime inducano allo sguardo in tralice, sono quasi giustificabili o, quantomeno, frutto del tentativo di stare al passo con le questioni che i tempi richiedono. Ambiente e sicurezza energetica, ad esempio, Infrastrutture e mobilità sostenibili anche, anche se già sdoganata dal governo precedente. Persino con Istruzione e merito viene da essere indulgenti, per quanto faccia sorridere che una abbia bisogno della specifica dell’altro, come se il merito non fosse dotazione scontata, ma sappiamo che i tempi son quel che sono e lo scandalo è sempre dietro l’angolo, non bastasse l’imperizia.

Rimane comunque spazio per l’ironia e lo sberleffo, o per qualche smorfia semplicemente, in considerazione del fatto che un conto son le contingenze storiche, un conto sono le parole segnaposto identitarie, che non dovrebbero avere ospitalità in organismi di natura neutra, anche ammettendo che la parzialità e il pensiero di chi li abita non possano essere ignorati.

E allora passi il merito con l’istruzione, che a me riporta comunque alla mente la bacchetta, vietata ma bene in vista, della mia maestra delle Elementari, ma da Affari regionali e autonomie, Sport e Giovani (come se lo sport non potesse e dovesse riguardare i meno giovani, tra l’altro), Imprese e Made in Italy, per arrivare a Agricoltura e sovranità alimentare, non posso negarmi la sensazione che le parole private, le parole dell’identità provino ad avere il sopravvento sull’interesse neutro del Paese.

Un dubbio analogo, sia pure meno spinoso, era sorto a suo tempo con la Transizione ecologica, dove ai più parve evidente che il problema fosse intrinseco a tutte le aree d’intervento e non vi fosse necessità di una torre di controllo, consapevoli che un’ulteriore torre di controllo avrebbe finito per smarrire il medesimo e consapevoli che qualunque ministero dovrebbe idealmente essere in grado di controllare sé stesso.

Ad ogni modo, sulle bocche degli italiani, di alcuni almeno, la parola che provoca più sarcasmo è sovranità. Ammesso che si intenda quel che tutti possono intuire, la prevalenza e la tutela del patrimonio alimentare italiano, davvero non si poteva scegliere una parola, un’espressione meno provocatoria?

Va bene essere conservatori, ci mancherebbe, ma sovranità evoca i sovrani e i sovrani evocano la monarchia, volenti o nolenti. Metto sarcasmo anch’io, ma reduci come siamo dall’estenuante regia transizione anglosassone, non vorrei che sotto le braci venisse in mente a qualcuno di covare nostalgie prerepubblicane.

Perché, per intenderci, tra re e Repubblica, in mezzo ci fu un’altra cosa, non proprio un vanto, non proprio memorabile, se non per i libri di storia.

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