NON SEMPRE SIAMO MEGLIO DEGLI INGLESI

di ALBERTO VITO (sociologo e psicologo) – La recente finale agli Europei di calcio ha rimesso a confronto lo stile di vita e la cultura italiana con quella anglosassone. Stavolta, è giusto ribadirlo, a tutto vantaggio nostro.

E’ dunque di grande attualità il libro pubblicato qualche mese fa da Tim Parks, scrittore inglese che vive nel nostro paese dal 1981, “Italian Life” (2021, Rizzoli), che guarda alle abitudini quotidiane nostrane dalla visuale di un osservatore esterno, ma non occasionale (Parks tra l’altro ha ricevuto anni fa la cittadinanza onoraria di Verona ed è un gran tifoso dell’Hellas).

La trama – i protagonisti principali sono una studentessa universitaria italiana e un professore inglese – è piuttosto semplice, ma è un pretesto per parlar d’altro. La teoria di partenza è che l’esperienza umana abbia tratti comuni universali, ma che l’espressione di tali tratti sia fissata dalla cultura locale in cui ciascuno è immerso. Ad esempio, si soffre e si è felici ovunque, ma lo si fa in modo diverso da paese a paese.

Per Parks, il tratto distintivo italiano è generato da un’eccessiva dipendenza dall’appartenenza ai gruppi, familiari e sociali, di cui facciamo parte, con una paura smisurata di esserne estromessi. Anche da qui nepotismo, clientelismo, eccessi burocratici: i nostri mali. Ciò avrebbe conseguenze anche nel nostro rapporto distorto con il potere.

L’analisi nel libro, a metà tra un romanzo e un saggio, si allarga anche al linguaggio.

L’esempio più forte è che, parlando di scuola, noi diciamo “sono stato bocciato, respinto” mentre in Inghilterra si dice “I’m failed”.

La differenza semantica è sostanziale. Dice più cose sulle due culture di molti trattati. In un caso, il nostro, si enfatizza il potere esterno di giudizio, come se l’azione principale fosse compiuta da altri, mentre gli inglesi enfatizzano la responsabilità individuale nell’insuccesso.

Stavolta, un rigore per loro…

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