NON E’ NOBILE SOLO IL DOLORE, ABBIAMO BISOGNO DEL LIETO FINE

Nell’attuale produzione letteraria italiana, ma forse non solo nel nostro paese, c’è una deriva, che è stata definita “dolorismo”, indicante una tendenza sempre più diffusa. Il termine, utilizzato in diverse accezioni, è stato coniato dal medico palliativista Luciano Orsi e designa una concezione teorica che valorizza la sofferenza psico-fisica, sino a vedere con diffidenza o addirittura scoraggiare l’uso di analgesici per il dolore fisico o il ricorso al supporto psicologico per quello psichico. Questa valorizzazione viene declinata diversamente in visioni laiche o religiose, concordi nel concepire la sofferenza come una via per conoscere meglio se stessi e un mezzo di elevazione spirituale

Tornando agli scrittori, sembra che essi implicitamente condividano l’assunto secondo cui raccontare di vicende dolorose, malattie, sofferenze, lutti abbia maggiore dignità letteraria. Alcuni autori confessano più o meno candidamente che scrivono perché hanno un dolore da raccontare. Qualche volta si scade nel vittimismo.

Certo, la testimonianza di chi affronta una malattia o convive con una patologia ha sicuramente un alto valore civile, ma effettivamente il fenomeno è così diffuso che fa pensare. Davvero le sciagure e le disgrazie hanno maggior valore? Sono le uniche esperienze importanti che ci aiutano a trovare un senso?

Leggere la rappresentazione del dolore altrui ha fascino, in un’epoca come la nostra che è segnata dalla paura generalizzata e dal rifiuto sia del dolore che della morte. E’ possibile che con la letteratura si voglia contrastare tale rimozione. Ma le cose stanno così? Davvero, chi non ha un tormento o non subisce patimenti non può avere qualità artistica?

E poi mi vengono in mente le parole del poeta francese Yvon Le Men nella poesia dedicata a Izet Sarajilic, il grande scrittore iugoslavo che scelse di non lasciare la sua città, Sarajevo, assediata per oltre tre anni durante la guerra in Bosnia, reputando che il suo compito fosse condividere le sofferenze della popolazione: “Regalami dei libri – che finiscano bene – in mancanza di romanzi – anche delle poesie – in mancanza di poesie – anche una quartina – in mancanza di una quartina – anche un unico verso”. Le Men immaginava che chi fosse in una condizione di restrizione avesse bisogno innanzitutto di lieto fine, che non è necessariamente sinonimo di superficialità o banalità. Oppure, più modestamente, ripenso alla canzone di Lucio Dalla secondo cui “l’impresa eccezionale è essere normale”.

Non sono i contenuti (o, almeno, non solo essi) a rendere eccelsa un’opera artistica. La grande arte non prende posizione esplicitamente, non è ideologica, mostra ma non dichiara, talvolta usa l’ironia, ci offre nuove visioni, allarga la mente e il cuore.

Parla di noi, della nostra condizione in generale e in assoluto. E non solo dei nostri dolori.

Un pensiero su “NON E’ NOBILE SOLO IL DOLORE, ABBIAMO BISOGNO DEL LIETO FINE

  1. CHIARA dice:

    La grande arte è una magia che non ha bisogno di nulla, splende di luce propria e sa usare tutto. Una ruota che corre, una mano appoggiata ad un muro, un cappello che vola via col vento, un sorriso appena accennato, cucchiaino d’argento annerito. Il fatto che si parli di tristezza e di morte sempre di più è proprio legato alla necessità di portare fuori da noi ciò che non vogliamo leggere sulle pagine della nostra storia. L’altro giorno parlavo con un collega maturo e pacato, dirigente rispettato e plurilaureato di una malattia spietata che purtroppo ha colpito un altro collega. Cercavo di essere positiva non perché ci credessi molto, ma perché volevo cambiare gli occhi del mio interlocutore. Il terrore gli appannava la vista e gli immobilizzava gli occhi, come se gli fosse apparso davanti un mostro in carne ed ossa che stesse per dilaniarlo. Era troppo vicina la malattia e lui mostrava il volto della paura senza nessun pudore. Se l’avesse letta su un libro la malattia del suo collega, lontana una lunghezza indefinita, il suo cuore si sarebbe commosso, la pietas avrebbe fatto capolino, ma lui non si sarebbe sentito fagocitato. Sta tutto lì il mistero, e sempre più è realtà in questa stupida società di invincibili, di gente che è solo lei e gli altri sono “diversi”. Si potrebbe aprire un dibattito su questo. I diversi sono tutti gli altri ormai. Teniamo lontana la morte come fosse una diversa.

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