NON AVRANNO NOBEL, MA SONO LE SIGNORE DELLA PACE

La somma del dolore ha generato un numero positivo. Il filo del destino che ha unito due donne in una sofferenza diversa, incomparabile, l’una moglie della vittima, l’altra madre dell’assassino, le ha poi unite cucendo un’unica, grandiosa toppa, che in qualche modo lenisce i loro cuori feriti, le loro anime devastate. E parla al prossimo. Lo aiuta, parlando di un’impensabile amicizia.

Quanta fatica si fa a comprendere il perdono, ad accettarlo! Quale sforzo per concederlo… Non c’è cristianità che tenga, non c’è compassione che muova, non c’è umanità che vinca. Il perdono non è porgere l’altra guancia: è qualcosa di più distante dalla nostra indole, è qualcosa di più elevato dello spirito. Riesce a coniugare la ragione e il sentimento, riesce a sopprimere la vendetta, il rancore. La mente, il cuore, il coraggio, la rassegnazione muovono meccanismi che in tutta onestà facciamo fatica a comprendere per quanto si possa essere ben disposti. E’ merce più che rara, sottintende una santità che davvero non ci è propria.

Invece no. Claudia e Irene hanno saputo ricominciare, hanno saputo chiudersi alle spalle una porta per uscire all’aperto guardando avanti, loro malgrado. Hanno voluto, hanno saputo unire la forza della disperazione per offrirla in pasto al livore, al risentimento. Saziando l’appetito di rivalsa, cambiando prospettiva. Stanno insegnando qualcosa che non fa parte del nostro modo di vivere, di affrontare le tragedie, le privazioni. E per quanto io possa andare avanti a riflettere e a scrivere, credo si tratti di una storia ultraterrena, oggi mischiata alla quotidianità di questo mondo. Eccome. Sospinta dalla forza di ripartire proprio da quello squarcio che crediamo irreparabile, quel vuoto che conosciamo soltanto come insanabile.

La notte del 25 aprile 2011 Matteo, 19 anni, aggredisce due carabinieri a un posto di blocco, riducendone in coma uno, Antonio, marito di Claudia. Antonio morirà dopo 13 mesi senza mai riprendere conoscenza.

Si ritrovano tutti in tribunale: Matteo sul banco degli imputati, sua madre Irene mischiata nel pubblico dove siede anche Claudia. La condanna all’ergastolo viene poi ridotta a 20 anni di reclusione. Giustizia è fatta: il criminale dietro le sbarre. Niente affatto: lo strazio diverso delle due donne resta intatto, le loro pene non si avvicinano minimamente a quella inflitta a Matteo. Non sembra esserci modo di lenire l’afflizione.

Irene ci prova. Scrive a Claudia. Le esprime ciò che prova per lei, descrive il supplizio cui Matteo ha costretto entrambe, il suo smarrimento e il pudore nel chiedere perdono. Senza nessuna speranza di ottenerlo.

Invece Claudia risponde, accetta, concede. Accetta l’angoscia di Irene, concede la sua comprensione. Si incontrano, si conoscono. La loro amicizia dà i natali a “Amacainoabele”, un’esortazione prima che un’associazione, allo scopo di connettere le famiglie delle vittime a quelle dei carnefici. Molto più di una montagna da scalare, molto più di qualche miracolo da compiere. Dovranno trovare con il lanternino quelle poche altre Claudia e Irene che, su questo pianeta percorso dall’odio, dal risentimento, dalla sete di vendetta, si piegheranno al perdono.

Ci si piega, al perdono. Si è sconfitti, dal perdono, schiacciati dalla natura ribelle che qualche volta, senza bisogno di Dio, chiude quella famosa porta alle spalle e apre un portone di cui quasi nessuno ha la chiave.

Un pensiero su “NON AVRANNO NOBEL, MA SONO LE SIGNORE DELLA PACE

  1. Cristina Dongiovanni dice:

    E’ che a volte si riconosce negli occhi dell’altro la nostra stessa immane sofferenza. Quando l’umanità risveglia l’umanità. Incredibili donne, proprio oggi leggo questo splendido articolo. Proprio oggi che tanta memoria scava nel passato, in tanti occhi che non hanno saputo incontrarsi.

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