NO MIELI, LA PAROLA NON SI TOGLIE NEANCHE A TRUMP

di ARIO GERVASUTTI – L’imbarazzante e grottesca corsa italiana in soccorso del vincitore delle elezioni americane Joe Biden ha fatto perdere il senso dell’equilibrio e della misura a molti insospettabili. Tra questi, sorprende trovare un grande direttore di giornale come Paolo Mieli. In un editoriale sul “Corriere della Sera”, l’ex direttore ha definito “impeccabile, perfetta, inappuntabile” la decisione degli anchorman di alcune reti televisive americane di togliere la parola a Donald Trump mentre si accingeva a denunciare brogli elettorali che, secondo il presidente sconfitto, avrebbero condizionato le elezioni.

E qui crolla più di un mito. Io non sono nessuno, ma da quando ho memoria so che se c’è una regola che dovrebbe stare alla base di qualunque idea di giornalismo: quella di separare i fatti dalle opinioni (proprie). Altrimenti, finiremmo per intervistare o ascoltare solo coloro che dicono cose che condividiamo. E a quel punto, è probabile che i giornali si potrebbero ridurre a fogli di poche righe… Magari qualcuno potrebbe esserne contento: noi no.

Diamo per scontato o assodato – ad oggi non abbiamo prove per confermarlo o smentirlo – che Trump stesse dicendo un mucchio di stupidaggini. Non sarebbe stata né la prima né l’ultima volta. E allora? Chi siamo noi – noi giornalisti, intendo – per togliere a qualcuno il diritto di parola? Noi che offriamo i microfoni e diamo spazio sui giornali a negazionisti del Covid, filosofi a 5 o 6 stelle, mafiosi, noi che avremmo dato un occhio per due chiacchiere con Bin Laden, che aspettiamo ansiosi Balotelli all’uscita dagli spogliatoi per sapere se ha dormito bene o se è un sostenitore del MeToo. Se esistesse una macchina del tempo e si potesse viaggiare nel 1936, c’è qualche giornalista che rinuncerebbe a incontrare Adolf Hitler perché diceva un mucchio di follie?

E proviamo, per un momento, a immaginare una scena rovesciata: un anchorman che dopo venti secondi in diretta “taglia” l’intervento di Biden (o peggio, del nuovo “mito” Kamala Harris) perché “dice sciocchezze”. Scoppierebbe una rivoluzione, verrebbe evocata la censura del Minculpop e della Stasi.

Dove sta la differenza? Che Biden non dice sciocchezze? Ne siamo sicuri sicuri? Mai, proprio mai detto una corbelleria in vita sua? E soprattutto, chi siamo noi per stabilirlo?

Noi giornalisti abbiamo altre armi per prendere le distanze da ciò che dice il nostro interlocutore, soprattutto se dice stupidaggini. La prima: lasciarlo terminare, andare fino in fondo nel brodo dell’idiozia. La seconda: controbattere con i fatti, dimostrando che non è vero ciò che dice. La terza: dimostrare di essere più forti utilizzando la coerenza. Ovvero trattando tutti alla stessa maniera.

Se togliamo la parola a uno perché ci sta sulle scatole o riteniamo che dica idiozie, poi dovremo farlo sempre e con chiunque. E qui casca l’asino. Perché non vedremo mai un militante togliere la parola al suo alfiere.

Ed ecco perché la definizione di “giornalista militante” è una contraddizione di termini: un giornalista non può, non deve essere “militante”. Deve coltivare l’arte del dubbio, innanzitutto nei confronti delle verità di cui è convinto. Altrimenti non è un “militante”: è un “mercenario”.

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