NESSUNO IMPARA A SCRIVERE ALL’UNIVERSITA’

di MARCO CIMMINO – Il livido dolente del rapporto tra università e comunicazione. La prima questione che si pone è se la comunicazione sia un’arte o una scienza. Ovvero, se la capacità di trasmettere in modo chiaro e convincente il proprio pensiero ad altri dipenda da facoltà innate, da un apprendistato di bottega o dall’assimilazione di regole di tipo scientifico. In altre parole: si può imparare a scrivere all’università? In questa università, intendo: quella fatta di crediti, di gradimento e di molteplici insegnamenti. Mi verrebbe da dire subito di no: la mia sfiducia verso il sistema accademico italiano è tale da suggerirmi una risposta secca. Questo, però, contravverrebbe alle regole della comunicazione, perciò, vedrò di essere un po’ più ragionevole e articolato.

Di fatto, la facoltà di scienza della comunicazione, tra le ultime a essere state concepite dai pensatori del MIUR, avrebbe voluto, da un lato, rispondere a un vuoto formativo che da sempre affligge il mondo del giornalismo e, dall’altro, accontentare le aspettative di moltissimi baldi giovani, attratti dall’idea di diventare i nuovi Pulitzer o, in subordine, perlomeno i nuovi Montanelli.

Anche ammettendo che il talento si impari a scuola, il che non mi pare, il difetto principale dell’operazione è quello di concepire la suddetta facoltà come la giubba d’Arlecchino: un pizzico di storia, un granello di semiotica, due manciate di letteratura, qualche nozioncina di marketing. Mancavano solo il salto della cavallina e il catechismo, insomma.

Va da sé che, abbacinati dallo sfolgorante e lusinghiero nome del nuovo indirizzo, molti giovanotti e molte giovanotte l’abbiano intrapreso, salvo accorgersi, molto presto, che si tratta prevalentemente di aria fritta e che la strada verso la gloria giornalistica è ripida, piena di ostacoli e, soprattutto, va in tutt’altra direzione.

Che posso dire? Chi non fa non falla e, presto, una sanatoria delle nostre aprirà a questi laureati, rimbalzati da redazioni e studi televisivi, la misericordiosa porta dell’insegnamento, il cui transito non si nega a nessuno.

Rimane il problema iniziale: come si fa a imparare a comunicare? Scartata l’ipotesi della scienza, ci rimane quella dell’arte.

E, allora, riformulo la domanda: l’arte si può imparare a scuola? Ovviamente, no: a scuola, semmai, si introiettano gli strumenti per praticare un’arte, ci si esercita, si correggono gli errori. L’arte te la può insegnare solo un artista, epistemologicamente parlando: ecco, dunque, riproporsi il vetusto concetto di “bottega”. Quello per cui Giotto andava a lezione da Cimabue. Allo stesso modo, io credo che il giovane tirocinante debba andare a bottega dai giornalisti bravi: e costoro, a meno che non siano afflitti dalla sindrome della diva in declino, distingueranno con occhio infallibile il mediocre dal predestinato.

Quindi, auspicherei e, anzi, suggerirei ai direttori di giornali, riviste e reti televisive di aumentare a dismisura gli stage, i praticantati, la formazione. Anche se so che questo non avverrà. Tuttavia, quella è, secondo me, la strada da seguire, nel giornalismo come in molti altri settori. Quanto alle facoltà di scienza della comunicazione, beh…

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