Forse qualcuno potrà togliermi una curiosità: dove è custodito il Regolamento del Festival di Sanremo? Intendo proprio il Documento Originale, il papiro o meglio la tavola dove esso è inciso fin dall’alba dei secoli, calato da un qualche Sinai della canzonetta. Immagino che, per custodirlo degnamente e in sicurezza, lo Stato italiano avrà affittato una stanza a Fort Knox: lì dentro, il Regolamento giace, protetto da una teca di cristallo antiproiettile, da sistemi antifurto e antivandalo sofisticatissimi, circondato da anelli concentrici di sentinelle: Guardie Svizzere nel cerchio interno, poi Corazzieri, Carabinieri, paracadutisti della Folgore e infine Navy Seals della Marina americana.
Solo così è garantita la sua eterna permanenza, solo così avremo certezza della sua immutabilità. E solo così stando le cose troviamo una spiegazione logica alla domanda: ma perché il Festival di Sanremo deve sempre essere così irreparabilmente uguale a se stesso?
Certo, Festival della canzone italiana deve essere, mica possiamo far competere danze slovacche tanto per il gusto di cambiare. Ma attorno al nucleo essenziale, perché devono ripetersi anno dopo anno stantii salamelecchi, goffe prolusioni, ridicoli annunci da concorsi amatoriali? Perché, santa pazienza, ogni anno l’orchestra deve essere definita “meravigliosa”, il pubblico “magnifico”, l’ospite “eccezionale”. Va bene la Città dei Fiori, abbiamo capito, ma perché deve essere ripetuto per ogni cantante il gesto del mazzo (la consegna del medesimo intendo), un omaggio ormai funebre, un tempo riservato alle signore e oggi esteso a tutti, uomini e altri generi che, non si sa mai, eventualmente dovessero presentarsi sul palco? E soprattutto perché a far da ospite deve per forza essere il “presentatore”, figura ormai estinta in ogni ambito televisivo, pubblico e privato, nel mondo? Perché dobbiamo sorbirci le ovvietà dispensate da un signore i cui tratti principali sono invariabilmente la mancanza di senso dell’umorismo e la capacità di aggettivazione ridotta a un massimo di cinque o sei opzioni: eccezionale, fantastico, indimenticabile, grande e mitico? Forse, dopo ponderata riflessione, quest’anno il Consiglio di amministrazione della Rai concederà a Carlo Conti di utilizzare l’abominevole ordigno linguistico “iconico”, giusto per accattivarsi il pubblico ggiovane.
Io personalmente agli americani non ruberei (quasi) nulla, tanto meno mi va di copiarli. Eppure, non posso che constatare la differenza con i loro appuntamenti tradizionali: gli Oscar, per esempio, o i Golden Globe. Cerimonie non prive di gusto dell’orrido, inutile retorica e raggelante pomposità. Eppure a introdurre il tutto è sempre un comico, il quale almeno ha il merito di riportare ogni cosa sulla Terra per qualche minuto, ricordando che, in fondo, la messinscena è pensata per scherzare, per divertire e nessuno deve prendersi troppo sul serio. Non aspirerei alla ferocia di un Ricky Gervais, per carità, ma almeno alla sorridente sfacciataggine di Nikki Glaser che, quest’anno ai Golden Globes, ha avuto il colpo di genio di definire l’attore Adrien Brody “due volte sopravvissuto all’Olocausto”.
Una risata per incominciare, insomma; un poco di ironia come antipasto. A Sanremo, invece, i comici – se ci sono, se ci vanno – li mettono sul tardi e li fanno parlare poco, non sia mai scappi loro una battuta su un sottosegretario, teniamo tutti famiglia.
Il problema, forse, è che noi non abbiamo comici ma soltanto giullari e allora non si può fare. Così ci teniamo stretto il presentatore il quale, ligio al codice pippobaudesco, controlla tutto e tiene tutto sui binari del previsto. Ecco allora che se un imprevisto scappa, e scappa sempre, finisce per diventare un qualcosa di enorme, di gigantesco. Non importa se è Morgan che dà fuori di matto, Fedez che si struscia o perfino un tizio anonimo che urla “sì ‘na pret”: basta sia un segno di vita, anche brutto, anche volgare, ma almeno spontaneo. Un raggio di luce, prima che ripiombi su tutto l’ombra del Regolamento che, voglio ricordarlo, prescrive l’obbligo tassativo di concedere al direttore d’orchestra un’inquadratura di tre secondi così che mamma, a casa, possa spremere una doverosa lacrimuccia d’orgoglio. Ecco: devo ammettere che, in quei momenti lì, anche a me spesso viene da piangere.