NE ABBIAMO LE TASCHE PIENE, MA ANCHE DI SOLDI

di MARIO COMANA – La notizia: le banche italiane scoppiano di liquidità. Hanno in cassa 160 miliardi di depositi in più dell’anno scorso, dopo aver concesso nuovi prestiti per 50 miliardi. E ben 100 di questi miliardi sono delle famiglie.

Ma c’è una notizia nella notizia: anche i tedeschi stanno spostando i loro soldi nelle nostre banche: 2,6 miliardi di nuovi depositi provengono dalla Sassonia, dalla Baviera, dal Baden-Wurttemberg piuttosto che dalla Renania.

Che fine hanno fatto i nostri fieri avversari in lederhosen (i pantaloncini in pelle) o dirndl (l’abito con grembiule) che ci raffiguravano su “Der Spiegel” con una pistola fumante su un piatto di spaghetti? E gli arcigni funzionari della Bundesbank, riottosi ad ammetterci nella moneta unica e, più tardi, ostili al supporto della Bce ai titoli di stato italiani?

Acqua passata, business is business e siccome in Germania, come in altri Paesi mitteleuropei, si incomincia ad applicare i tassi negativi ai conti correnti (cioè: se versi 1.000 euro fra un anno ne ritirerai 997) ecco i tedeschi valicare il Brennero con le borse piene di denaro e fare tappa in una nostra filiale bancaria, prima di raggiungere l’agognata riviera romagnola (naturalmente è un linguaggio figurato: usano le app che consentono di individuare i conti più remunerativi in Europa).

Ma torniamo ai depositi degli italiani. Il dato sembra stridere con la ricorrente rappresentazione di un Paese in profonda crisi economica e con un numero di persone sotto la soglia della povertà (la cui asticella, per il vero, viene oggi collocata molto in alto). Ci sono due spiegazioni complementari: quella finanziaria e quella reale (reale come afferente all’economia reale, non che la prima sia fasulla).

I Bot rendono sottozero, i Btp a dieci anni un misero 0,7% all’anno (lordo naturalmente, lo Stato esige la sua fetta anche su quello che ti paga lui) e quindi i nostri risparmiatori, quelli che un tempo chiamavamo i Bot-people, si sono disamorati di tutto l’obbligazionario, anche quello emesso dalle imprese.

Così, dopo essersi riempiti di azioni (che qualche rischio ce l’hanno) e disamorati del mattone (in calo cronico e anch’esso tartassato) tornano all’antico: la liquidità, sotto forma di depositi bancari. C’è chi li biasima perché “non fanno girare l’economia”: tornate a pagare loro un interesse non dico appetibile, ma anche solo decente, per esempio un 3% annuo, e vedrete che come per incanto i depositi bancari si ridimensioneranno.

Poi c’è la spiegazione dal lato dell’economia reale, che non va male come dicono. Non sono uscito pazzo, riconosco che un calo del Pil del 9% in un anno è una catastrofe paragonabile a una guerra (persa), ma dal secondo semestre abbiamo fatto +18%, l’export tira da matti (+ 30%), ci sono settori industriali dove l’unico fattore scarso sono i lavoratori, soprattutto quelli qualificati.

Poi certo, ci sono i settori letteralmente soffocati dalla pandemia: il turismo, la ristorazione, il commercio al dettaglio, lo spettacolo e qualcos’altro che sfugge alla mia percezione. Insomma, la pandemia genera nuove divaricazioni. Attenzione, non riduciamolo semplicisticamente a “i ricchi guadagnano sempre, i poveri ci rimettono sempre”, motto che potrebbe essere il titolo di un capitolo della versione italiana del “Manual del perfecto idiota latino-americano” (Mendoza, Montaner, Vargas Llosa, 1996).

Tornando alla sorprendente crescita dei depositi bancari, essa non è estranea alla presenza di aziende e di persone che, in modo del tutto lecito – non voglio pensare agli altri – traggono beneficio dalla pandemia, perché vedono accrescersi il loro spazio di business: pensate per esempio a chi opera nell’informatica e nella telematica, nell’elettromedicale eccetera.

Una componente della liquidità giacente è attribuibile anche ai nuovi risparmi. E anche qui la motivazione è duplice: una, non favorevole, è legata ai comportamenti prudenziali indotti dall’incertezza del momento, l’altra è il risparmio forzoso indotto dallo stile di vita monacale imposto dalle restrizioni.

Alla fine, ha ragione ancora una volta Totò: “è la somma che fa il totale”.

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