La parte sbagliata in realtà non ha nulla a che fare con l’associazione Felicita, bensì con le amministrazioni pubbliche. Sarebbe un minimo atto civile da parte loro costruire muri della memoria, ma in mattoni, mattoni da toccare, vedere dal vivo, annusare, restituendo, almeno simbolicamente, un poco della privazione che ha straziato intere famiglie. Privazione dell’anima e dei sensi: gli occhi che si incontrano, le mani che si stringono.
Sarebbe sgradevole e vergognoso che un simile ricordo venisse negato. Sarebbe sgradevole e degradante che una amministrazione pubblica, oltre tutto non priva di responsabilità sembra, si accodasse alla pur lodevole iniziativa sulla rete e non pensasse a un vero muro dove qualcuno magari potrebbe inginocchiarsi, mostrare pietà e versare qualche lacrima. E non parlo solo dei famigliari.
Qualcuno riuscirà, alla fine di tutto, ad ammettere di aver commesso degli errori? Proprio nessuno avverte un minimo senso di colpa? La domanda è retorica, no, nessuno. Nessuno lo ammette, quantomeno. Parlo di morti evanescenti, impalpabili, di persone in qualche modo evaporate, trovo una beffa ulteriore affidarne la memoria esclusivamente a metodi virtuali.
Lo ripeto, esprimo tutto il sincero rispetto per l’iniziativa di Felicita, ma non è a loro che mi rivolgo. Un muro online è un muro che devi volere scovare, ci vai perché ci vuoi andare, e chi ci vuole andare già sa. Un muro di pietra è un muro nel quale puoi anche imbatterti, che magari non ti aspetti e che può indurre a farsi domande. Cosa è successo? E come? Chi erano queste persone? Cosa facevano? Nessun muro può risarcire alcunché, ma restituire dignità sì, con un ininterrotto ultimo abbraccio a chi l’ultimo abbraccio non lo ha avuto mai.