MORIRE DELLA PROPRIA PASSIONE, NON C’E’ DI MEGLIO

di LUCA SERAFINI – L’assunto è così semplice da rendere il lutto disarmante: correndo a 300 all’ora su due ruote, la tenzone con la morte non ha sosta. L’agguato è in attesa ad ogni curva, in fondo ad ogni rettilineo. Per quanto si possano studiare, cercare, migliorare sempre più le condizioni di sicurezza, resti comunque un ragazzo forte e fragile in sella a una fionda, e qualsiasi attimo può essere fatale.
Jason Dupasquier, svizzero di 19 anni, è sbucato come un proiettile dalla “curva dell’arrabbiata 2”, al Mugello, nelle fasi finali delle qualificazioni per la gara di Moto3. La ruota posteriore ha perso aderenza e di conseguenza è sfuggito a Jason il controllo del suo bolide. High side, effetto fionda: così definiscono tecnicamente quello che è successo. La caduta di per sé poteva costare soltanto qualche sbucciatura, ma ogni tanto la fatalità, cruda, feroce, prepara le cose con meticolosa abnegazione e stavolta ha fatto in modo che dietro a Jason arrivassero altre due moto, che lo hanno travolto senza lasciargli scampo, perché nessuno dei due piloti ha potuto fare nulla, non avendo spazio né tempo né modo.

Spazio, tempo e modo. La tecnologia umana cura ogni dettaglio per inseguire la vittoria, per arrivare al traguardo. Al destino basta molto meno. E’ vero: ci sono sport in cui la sfida è impari: se ti arrampichi su una vetta per migliaia di metri, se voli sull’asfalto a velocità supersonica, se attraversi da solo l’oceano, le percentuali giocano tutte contro di te e la tua vita. Molto diverso che giocare a tennis o a pallone oppure gustarsi tutto in tv, dal proprio divano. Ma quello che c’è nel petto, nella mente, nelle vene di un centauro, di un pilota, di uno scalatore è l’essenza stessa della sfida, elevatissima per sua natura, inarrivabile per noi. Una sfida folle o coraggiosa a seconda che si ami quel divano o che si invidi l’adrenalina con cui vivono mano nella mano quei ragazzi, salvo che talvolta la presa si sfila e per mano ti prende la morte. E’ un pugilato quotidiano tra la vita e la morte, dove quei ragazzi non sono arbitri ma protagonisti. E il pugilato è definito “nobile arte”…
E’ una nobile arte il rischio? E’ una nobile arte affrontare un rettilineo, una curva, una vetta, una tempesta, per sport? Lo è, perché senza poter dare libero sfogo alla loro voglia di sfida, alta velocità, vertigini e strambate solitarie, quegli atleti, quei ragazzi morirebbero comunque. Soffocati, prigionieri della loro adrenalina. Non possiamo permetterci di rinfacciare loro che morire in moto è più facile che giocando a padel, non possiamo essere noi stessi vittime di quell’assunto tragico e veritiero: è sfidandolo, che Jason Dupasquier si sentiva vivo. La sua passione e la sua esistenza meritano rispetto, come quella di tutti i Dupasquier sbriciolati dallo sport. Non sono pazzi, a modo loro sono romantici.
La loro natura, la natura di questi Jason, va oltre, va veloce, più veloce delle loro stesse moto, che velocemente se li portano via. 

 

Un pensiero su “MORIRE DELLA PROPRIA PASSIONE, NON C’E’ DI MEGLIO

  1. Fiorenzo Alessi dice:

    Egr.Sig. Luca SERAFINI,
    se è vero – eccome se è vero ! – che si vive anche di passioni , ovvero di cose di cuore più che di raziocinio e ponderazione, è altrettanto sacrosanto che per una passione si possa anche mettere in gioco la vita. Nel conto ci si mette pure che si possa perderla.
    Emblematica una frase : si muore vivendo come si voleva.
    Non sarà unanimemente condivisibile, ma di sicuro è libera ed accettata alternativa ad una vita che che non sia mero sopravvivere.
    Cordialmente.
    Fiorenzo Alessi

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