MESSE E TEATRI, HO QUALCOSA DA DIRE A VELTRONI

di DON ALBERTO CARRARA – “Perché le messe sì e i teatri no?”. La domanda viene da Walter Veltroni, ex sindaco di Roma, ex primo ministro, regista, scrittore, eccetera eccetera e si riferisce al trattamento, diciamo così, di favore che il Dcpm del governo ha riservato alla Chiesa rispetto al mondo dello spettacolo per la faccenda del Covid. La domanda suscita tante considerazioni.

Prima. La domanda è tipica di un laico, moderato e attento, per quanto se ne sa, al mondo cattolico, ma laico. Per un laico una messa in meno non dice gran che. Facciamo un’ipotesi per assurdo: il governo permette di andare al cinema e a teatro e proibisce di andare a messa. In quel caso è sicuro: Walter Veltroni non direbbe nulla. Forse si congratulerebbe perfino, non perché verrebbe proibita la messa, ma perché sarebbe permesso il teatro. Il che dice una cosa molto semplice. Ognuno difende le cose che gli stanno a cuore e non vede le altre. Non ne faccio una colpa a Veltroni, ma sono libero, resto libero per ora, di prenderne atto.

Seconda. La presa di posizione di Veltroni, però, non dice solo qualcosa di lui, ma anche qualcosa di noi, credenti. È una riprova, questa. I credenti contano sempre meno, nel senso matematico del “contare” e nel suo senso più “sociale”. Siamo sempre meno numerosi e siamo sempre meno “presenti” sulla scena sociale. Il Covid sta contribuendo di suo. Finché c’è un primo ministro che è devoto di Padre Pio, possiamo sperare in una qualche forma di attenzione, poi, per il futuro, si vedrà. Ma non c’è proprio da farsi illusioni.

Terza. Cerco di trovare qualche ragione oltre a quella sbandierata dalla stampa laica che parla di un favore fatto ai vescovi da parte del governo. E mi viene in mente una vecchia, forse un po’ stantia, memoria scolastica. Questa. Durante il Medio Evo, soprattutto in Francia, il teatro nasce dalla liturgia. Prima, dentro la chiesa, in particolare durante il Natale e la Pasqua. All’inizio resta un teatro ancora legato alla liturgia, come una specie di ricamo drammatico sul mistero celebrato. Poi il teatro si sviluppa e “esce” dalla chiesa sul parvi, sul sagrato. Resta ancora legato alla liturgia, ma se ne distacca di fatto. Poi si sviluppa autonomamente e nascono delle compagnie che rappresentano quelli che si chiamano ”mystères” e “miracles”, diventati ormai spettacoli del tutto autonomi.

Non so fino a che punto questa tesi sia ancora viva tra gli studiosi. Ma mi piace continuare a ritenerla verosimile. Mi intriga, infatti, questa parentela originaria tra liturgia cristiana e teatro. Perché, a ben pensarci, anche oggi, la liturgia resta, almeno un po’, teatrale: la messa è rappresentazione. Non è solo rappresentazione, ma è anche. E forse, viceversa: il teatro ha qualcosa di liturgico, di sacro e ognuno può modulare a modo suo quel senso di sacro che si avverte quando si partecipa a qualche spettacolo, antico, classico o moderno che sia. Forse, allora, si può pensare che Giuseppe Conte si sia deciso a dire di sì alla messa perché ha pensato di salvare le radici del teatro, quelle che hanno preso in chiesa, nella speranza di poterne salvare, appena possibile, le sue più lontani propaggini, quelle che hanno preso nei teatri.

Giuseppe Conte avrà pensato davvero a tutto questo? Forse no. Ma lo pensiamo noi, per nostra consolazione e nell’attesa di chissà quali e chissà quanto lontani tempi migliori.

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