MEGLIO O PEGGIO? FUORI DI TESTA

di MARIO SCHIANI – Mentre dilaga il dibattito, molto sociologico ma anche sempre più filosofico, sul dilemma “saremo migliori o peggiori” al termine della pandemia (di recente l’influentissimo Michel Houellebecq ha sposato la seconda ipotesi), qualcuno alza timidamente la mano per dire che una cosa è già certa: ci ritroveremo tutti molto più fuori di testa.

L’affermazione, messa così, sembra sgangherata e aleatoria ma in realtà ha un suo rigore scientifico. In un articolo pubblicato pochi giorni fa, la giornalista scientifica canadese Carolyn Abraham ha raccolto informazioni sufficienti per concludere che nel Covid-19 il cervello ha trovato il suo peggior nemico. Non tratta, la brava Carolyn, dei danni neurologici pur riscontrati in diversi pazienti affetti dal virus; perché danneggi il cervello, la dannata bestiaccia non ha neppure bisogno di contagiarci: i guasti di cui si parla nell’articolo sono quelli psicologici.

«Gli esseri umani – spiega la giornalista – non sono costruiti per affrontare questo tipo di minaccia a lenta cottura. Siamo meglio equipaggiati a vedercela con singoli attacchi improvvisi». In altre parole, il cervello è programmato per reagire più che altro a pericoli istantanei e circoscritti, come un leone che zompa fuori da un cespuglio o una canzone di Gigi D’Alessio che erompe inaspettata da Spotify.

Prima di mettere in dubbio la vostra capacità di reagire con efficacia e sangue freddo all’attacco di un leone (o di Gigi D’Alessio, se per questo) considerate che, secondo le neuroscienze, il cervello umano è costruito come un palazzo a tre piani. In quello inferiore, la cantina se volete, risiede il cervello “rettile”, quello ereditato dai primi stadi dell’evoluzione, che presiede a funzioni vitali come respiro, battito cardiaco, sonno, deglutizione, movimento. Al piano terra, appena dopo il tappetino di “benvenuto”, sta il cervello che ci arriva dai primi mammiferi: in esso riponiamo la memoria e le emozioni. Infine, ecco il piano nobile, l’attico, ultimo risultato – per ora – del processo evolutivo. Questa “suite” presidenziale ci consente di imparare, parlare, decidere e anche di immaginare.

Il guaio, relativamente al Covid-19, è che l’allarme da esso scatenato corre dritto al cervello rettile, quello in cantina, il più primitivo e schematico. Questo cervello è bravissimo nell’avvertirci di ogni pericolo, ma non sa distinguere tra le minacce reali e quelle immaginarie. Chiusi in casa, e connessi con il mondo solo attraverso gli schermi della tv e del computer, immagazziniamo un sacco di informazioni allarmanti che, alla rinfusa, spediamo là sotto. Risultato: dentro di noi c’è un campanello che suona ininterrottamente da mesi. Questo “suono” stimola i cervelli “superiori” a cercare soluzioni al problema. Soluzioni che per ovvi motivi non possono trovare.

«È una situazione completamente nuova – spiega un esperto interpellato dalla Abraham -, e non assomiglia affatto alla guerra, come sostengono alcuni. Qui non siamo al centro dell’azione. Chi è stato sotto le bombe, per quanto terribile possa essere stata la sua esperienza, ha visto il pericolo in faccia, l’ha visto arrivare e l’ha visto allontanarsi. Per noi non è così».

Per quel poco che gli scienziati possono aver capito circa il comportamento del nostro cervello in questa inedita circostanza, esso soffre soprattutto per la perdita dell’“illusione di controllo” che automaticamente innesca quando prova paura e incertezza. Il cervello annaspa per rimettersi ai comandi ma, in questo caso, non può farlo. Il semplice “rimanere a casa per aiutare a contenere il contagio” non è un’azione sufficientemente incisiva per rimetterlo in una condizione di tranquillità.

Secondo gli esperti citati nell’articolo, il disagio si manifesta e si manifesterà con particolare forza «nelle società altamente individualistiche, come gli Stati Uniti e il Canada, dove molte persone si ribelleranno».

E l’Italia? L’analisi scientifica di Carolyn Abraham non si spinge al punto di ritagliare una diagnosi specifica per il nostro Paese. Tocca fabbricarcela da noi. L’individualismo certo non ci manca ma, rispetto ai nordamericani, vantiamo una millenaria tradizione di abitudine all’adattamento e perfino al fatalismo che forse potrebbe aiutarci a conservare un poco di salute mentale. Sempre che Gigi D’Alessio non ci metta del suo.

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