MASCHERINE CHE SMASCHERANO

di GIORGIO GANDOLA – Sul cartello c’è scritto «Non mi resta che una maschera». E la indossa, è quella di carnevale, barocca, da madamina sexy. Dietro il cartello c’è lei, la dentista francese, nuda come mamma la fece. In un’altra foto, scattata un migliaio di chilometri verso Est, si vede un medico tedesco seduto nel suo studio, con stetoscopio al collo ed espressione furente: sono gli unici due indumenti virtuali che ha addosso mentre minaccia con lo sguardo di alzarsi in piedi.

L’asse Parigi-Berlino è anche questo. E loro sono i simboli di una singolare protesta contro i governi, i sistemi sanitari, gli arrondissement e i länder: «Mancano i dispositivi di protezione individuali, ci state mandando allo sbaraglio, siamo nudi davanti al virus. E questo è l’unico modo per farlo sapere ai cittadini».

La rivolta dei (senza) camici lascia esterrefatti perché arriva dai paradisi della perfezione percepita, dai luoghi dove il Coronavirus è entrato chiedendo permesso per timore di disturbare, dai santuari della sanità con la bacchetta magica. Questo almeno ci hanno spiegato con puntuale deferenza i reportage dei giornali italiani.

Premesso che il Covid-19 non si è abbattuto su tutti i paesi con la stessa intensità e che certe caratteristiche strutturali (per esempio il numero di terapie intensive preesistenti in Germania) hanno fatto la differenza, a livello organizzativo possiamo perfino consolarci. Dietro la mascherina siamo tutti uguali. Pensavamo di essere una nazione di derelitti, amministrati male e governati peggio (e forse è pure vero), travolti dal vittimismo e dall’autocommiserazione che sempre scattano nell’italiano con le spalle al muro e i glutei sul divano.

Per due mesi abbiamo invidiato – altra caratteristica dominante nel dna nazionale – francesi e soprattutto tedeschi per come stavano affrontando il Covid-19. Efficienti, silenziosi, chirurgici, loro sì così strutturalmente nordici. E invece le nostre sbandate di fine marzo sono simili alle loro sbandate di inizio maggio. Potevano far tesoro dei nostri errori, ma quando mai un francese e un tedesco si abbassano a copiare un italiano?

I dentisti francesi (sono 175, hashtag #dentistesapoil) si sono messi a nudo su Euronews per richiamare l’attenzione del ministero della Sanità. Il loro grido: «Senza mascherine non possiamo tornare al lavoro, abbiamo dato tutti i nostri materiali agli ospedali all’inizio dell’emergenza. Ora non ci è rimasto nulla».

Poiché la riapertura è prevista per l’11 maggio sollecitano il governo a intervenire. I medici di base tedeschi hanno fatto passerella sulla Bild, svestiti, per contestare un sistema sanitario nel quale «senza protezioni siamo vulnerabili noi e lo sono i nostri pazienti».

C’è qualcosa di già sentito. È davvero sorprendente, per noi dell’ultimo banco, scoprire che il virus ha sorpreso anche i tedeschi primi della classe nell’elemento più basico e banale: le mascherine. Indicatore formidabile di uno shock. Così, superato il picco, si vede meglio anche la loro fragilità, perfino la loro umana fallibilità. Avevamo già parecchi sospetti sui numeri relativamente bassi delle vittime, soprattutto dopo che a Berlino avevano deciso di derubricare le polmoniti gravi chiamandole con un altro nome: German Flu. La storia delle mascherine completa l’opera, benvenuti sulla terra.

In una cosa i nostri fulgidi esempi europei rimangono però inavvicinabili: lo stile, la capacità di soffrire senza sbracare sul ballatoio. Da noi polemiche infinite di luminari contro politici («Assassini!»), di virologi contro epidemiologi, di Iss contro Asst; da loro un provocatorio flash-mob. Da noi lo spernacchiamento di chi ha messo in produzione 900.000 mascherine al giorno da fine marzo (la Lombardia ed altre regioni), da loro il lungo applauso commosso al cargo della Bundeswehr atterrato ieri a Lipsia dalla Cina con il primo carico di 10 milioni. Anche le mascherine smascherano.

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