MAMMONI A CHI

di LUCA SERAFINI – Era la prima amichevole estiva del Milan olandese, estate 1988. Debuttava Ruud Gullit con la maglia rossonera e in tribuna stampa lo stupore fu grande quando ci consegnarono la distinta delle formazioni: il numero 10 della squadra allenata da Arrigo Sacchi era “Rudi Dil”. A fine partita ci spiegarono l’arcano: il trecciolone olandese aveva scelto il cognome della madre, perché papà un giorno era scappato e non se n’era più saputo niente. In ogni caso, Dil rimase Gullit per sempre e per tutti.

Qualche tempo dopo, durante la sua convalescenza in Olanda per un brutto infortunio, andai a trovare Gullit per un’intervista: mi diede appuntamento a casa della madre, alla periferia di Amsterdam, più facile da raggiungere per me, perché lui stava fuori città. La signora Dil abitava in un modesto appartamento di un condominio popolare: suo figlio volle che il fotografo gli scattasse una foto insieme da pubblicare sul giornale. “Sarà contenta per questa convalescenza, può godersi suo figlio per un po’…”, le dissi. Lei mi guardò sorpresa: “No, no, affatto. Quando ha iniziato a giocare a pallone e prendere due soldi, l’ho buttato fuori casa… Devi imparare a stare al mondo! E in questi giorni gliel’ho detto chiaro: vieni a trovarmi ogni tanto, mangi qui, poi te ne vai alle tue cose”. Ruud si mise a ridere: “Volevo regalarle una bella casa, ma lei si è opposta e ha minacciato di non parlarmi più. Questa è la mia casa, mi ha detto, tu occupati della tua e della tua famiglia. Da te non voglio niente”.

Per lavoro, avevo lasciato casa dei miei da poco tempo, andando a vivere da solo. Ero comodo, con papà: le prime collaborazioni con radio, giornali e tv valevano pochi spiccioli e lui mi regalò la prima automobile, mi pagava la benzina, i vestiti, vitto e alloggio erano garantiti. Sarei rimasto a lungo, capite…, ma fui costretto a cambiare città e dovetti prendere casa. Iniziando a pagarmi tutto da solo e questo mi spaventava. Con malinconia della mamma, e un po’ anche mia che sentivo andarsene l’adolescenza e una fetta di vita. Ero un po’ preoccupato, perché da poco un mio coetaneo aveva lasciato i suoi per andare a fare l’operaio: grazie ai soldi dello stipendio aveva iniziato con gli stravizi e sarebbe morto all’alba dei 26 anni. Dovrò avere la testa sulle spalle, mi dicevo.

Ero dispiaciuto per il fatto che il lavoro (ma se ami quello che fai, non è lavoro, dicono) mi aveva strappato alla famiglia e all’università, che invece i miei amici più cari hanno concluso quasi tutti, mantenuti dai genitori fino ai 24, 25, 26 anni… anche 30, per intraprendere poi le loro carriere. Dieci mesi di studio e due di vacanza… Tutto pagato. Non come era capitato a Karin, il mio primo amore, una ragazza di Berna: alla fine del liceo i genitori l’avevano letteralmente buttata fuori di casa, come altre universitarie con le quali viveva e studiava a Nyon dove andavo a trovarla. Per mantenersi gli studi lei e le sue sconosciute conviventi facevano le cameriere o le baby-sitter. Karin mi raccontò che la sua più cara amica invece era rimasta a Berna, in famiglia, ma non l’aveva mai più vista perché era entrata in una banda punk e faceva cose che lei non condivideva. Qualche tempo dopo mi disse che era morta per overdose.

Potrei andare avanti a lungo, raccontando di giovani rimasti in casa e che si sono persi, e di altri che se ne sono andati presto per diventare ottimi professionisti e padri di famiglia. E viceversa. Non ho mai capito questa gara tra chi fa meglio cosa, tra genitori e figli del Nordeuropa dove li cacciano via presto perché imparino a vivere e camminare con le proprie gambe, e noi latini che invece abbiamo la tendenza a starcene accoccolati sotto le ali di mammà fino a tardi, trascorrendo poi ogni Natale con loro mentre Karin invece li passava tutti lontana dalla famiglia, per sciare libera e lavorare in un hotel di Zermatt dove chiedeva che andassi a stare io, ma soltanto per pochi giorni…

Siamo tra i più mammoni d’Europa, forse del mondo. Secondo i rilevamenti di Eurostat oltre due terzi dei “giovani adulti”, ovvero coloro che hanno tra i 18 e i 34 anni, in Italia vive a casa con i genitori, una percentuale (67,3%) che nel 2015 cresce rispetto al 2014 e si conferma al top nell’Unione europea (dietro solo alla Slovacchia) con quasi 20 punti di differenza rispetto al 47,9% medio europeo. Non tutti i mammoni sono disoccupati, tutt’altro. C’è chi si sbraca sul divano da single e chi lavora come un somaro vivendo ancora con mamma e papà.

L’indipendenza è una conquista intima, che si ottiene grazie all’equilibrio e alla propria maturità. Non importa dove né con chi. Non è esiste un meglio o un peggio nel percorso, l’essenziale è arrivarci. Per poter restituire ai nostri figli ciò che abbiamo imparato nel nostro cammino, senza costrizioni né altre regole predefinite. Questo funziona. O meglio, questo penso sia meglio.

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