MA L’INGLESE RESTA NECESSARIO, POCHE STORIE

di LUCA SERAFINI – Scusami, caro Gatti, io non ti capisco. Non vi capisco. Nel 2021 ancora sollevate obiezioni sulla piega anglofona che ha preso il nostro vocabolario? Capisco e sostengo la battaglia affinché la lingua italiana recuperi il suo decoro o, quanto meno, la sua correttezza nei termini minimi sindacali, nei verbi e nelle preposizioni. Leggere e ascoltare è diventato un tormento.

L’insofferenza verso l’inglese, però, davvero non la capisco. Noi italiani siamo esterofili a prescindere, su questo non c’è dubbio, ma l’inglese bisogna conoscerlo. Tutti. Un esempio piccolo sono i tassisti che lo parlano correttamente in un Paese che – prima della pandemia – aveva nella risorsa del turismo una delle fonti più ricche: si contano sulle dita di una mano, “on the fingers of one hand”.

Siamo l’unico Paese al mondo che si impegna nel pronunciare correttamente i cognomi dei cechi, dei danesi, degli uzbeki, ma continuiamo a scrivere “ad Udine”. Io in Francia sono Serafinì, in Spagna don Luca, in Germania Zerafini, in Inghilterra Sarafaini, se ne fregano di come mi chiamo nella mia lingua. Noi invece caschiamo persino nel trappolone di Wanda Nara e abbiamo preso tutti a chiamarla “Uanda”, non esiste al mondo.

Seriamente, però, nella nostra quotidianità abbiamo sempre di più a che fare con tablet, smartphone, iPad, applicazioni e accessori che trasudano termini inglesi cui ci dobbiamo – eccome – adeguare. Non ti dico di arrivare ai picchi svizzeri dove a 10 anni una ragazzina parla già correttamente inglese, francese e tedesco e (se vive in un cantone italiano) persino la nostra lingua, però a mio avviso se l’insegnamento dell’inglese nelle scuole procedesse di pari passo con il rispolvero di una sana grammatica italiana, sarebbe solo un grande vantaggio.

Mi rendo conto che l’esibizionismo è fastidioso, qualche volta grottesco, però l’essenza è che se ci piace l’Europa unita, se siamo ancora un popolo di navigatori, se un giorno mai un qualsiasi governo italiano si accorgesse che la filiera del turismo ha una valenza calpestata e tragicamente dimenticata dall’avvento del coronavirus, beh, dai, mastichiamolo ‘sto inglese. A cominciare dal nostro Premier, perché di Dragons al volante abbiamo bisogno come il pane.

Con l’aiuto di google (pronuncia: gugl) dobbiamo solo fare la rapida, sopportabile fatica di cercare il significato di una parola che non conosciamo. Io ho imparato lo spagnolo così, leggendo i quotidiani e ascoltando parlare gli spagnoli. Se non capivo, tac! Andavo su gugl. E ora so 3 lingue, ma naturalmente devo ripassare continuamente l’italiano. Have a nice day, Cristian Cats.

4 pensieri su “MA L’INGLESE RESTA NECESSARIO, POCHE STORIE

  1. Cristiano Gatti dice:

    Caro Serafini, credevo di avere scritto chiaramente che non si discute la necessità dell’inglese. E’ scontato. Ma Draghi, e io in coda, non parla dell’inglese come lingua inevitabile, ma dell’abuso cretino che ne facciamo noi, tra di noi. Sono due cose molto diverse.
    Credevo di averlo specificato chiaramente. Ma leggendoti scopro che non è così. Evidentemente abbiamo entrambi problemi con l’italiano: io non riesco a usarlo bene, tu a capirlo.

  2. Giulietta Brugnoli dice:

    Ciao Luca,
    Concordo con te. Sai che di lavoro faccio la traduttrice, occupandomi di inglese e tedesco (nonostante lo detesti 😞), quindi conosco l’importanza, nella fattispecie, di sapere l’inglese e soprattutto la giusta pronuncia. Però sono una sostenitrice della lingua italiana, almeno laddove ancora esistono traducenti italiani che esprimono perfettamente il concetto del termine inglese. In primo luogo, perché svolgendo il mio lavoro mi sono accorta che si fa un uso di terminologia inglese senza conoscerne il significato (penso al settore medico o biologico, la mia specializzazione primaria, in cui all’università gli studenti imparano a usare ad esempio il termine “pattern” senza che nessuno gli abbia mai spiegato il concetto, con la conseguenza che ne fanno poi un uso smodato, spesso non pertinente). In secondo luogo, perché in televisione o sulla carta stampata ormai si usano “calchi” dell’inglese che fanno rabbrividire, quando nella nostra lingua esistono da sempre termini da poter impiegare al posto di queste, a mio avviso, “aberrazioni”. Il più classico degli esempi di un calco inglese è l’uso del “non” davanti a un sostantivo o a un verbo per indicare il suo contrario. Il settore del calcio (che come sai, seguo in modo particolare) è quello in cui, dalle mie constatazioni, il suo impiego è assai inflazionato. Credimi però, che sentir dire da noti giornalisti televisivi, tuoi colleghi, “la NON vittoria” di una determinata squadra, quando esiste una semplice parolina, “sconfitta”, che è sempre stata utilizzata fino a pochi anni fa e che corrisponde all’esatto contrario di vittoria, a me provoca una scossa interna ogni volta e, da saccente, grido ad alta voce: “SCONFITTA, (nome del giornalista)! Si dice S-C-O-N-F-I-T-T-A!”. Vogliamo parlare della “NON partecipazione alle coppe europee”?!?! Ma riusciamo a capire che in italiano se vogliamo mantenere quel determinato termine, basta mettere semplicemente davanti, “mancata”? La mancata partecipazione. Non va bene? L’assenza dalle coppe europee, è l’esatto contrario… ma niente, quel NON è ovunque. Ti assicuro che da linguista è da pelle d’oca… Chi lo usa, invece, pensa probabilmente di elevare il registro del proprio linguaggio, senza accorgersi che in realtà è solo una scappatoia, un metodo più semplicistico per evitare di sforzarsi a ricercare nella nostra mente il termine corretto. Quindi, sì all’inglese, assolutamente, da conoscere al meglio e con un grande occhio alla grammatica italiana (perché, se non si conosce in particolare l’analisi logica, è ben complicato imparare una lingua), ma attenzione agli inglesismi, che in italiano spesso non funzionano 😉
    Giulietta

  3. Fiorenzo Alessi dice:

    Egr. Sig.ri Amanti della conoscenza necessaria , essenziale , pressoché vitale della lingua della perfida Albione ,
    voglio darvi la soddisfazione di farvi presente il mio sostanziale analfabetismo dell’inglese .
    Parlo e scrivo l’italiano, sforzandomi di farlo correttamente, l’italiano , e per esigenze professionali il francese ( lingua alternativa all’inglese in ambiti ultranazionali di giustizia sportiva) , e tanto mi basta ed avanza.
    Giusto per darvi l’idea di cosa pensi dell’inglese “imperante” , ricorro al latino , che quelli moderni ed al passo con i tempi definiscono “lingua morta “ : SUMMUM INGLESE , SUMMA INIURIA .
    Amen.
    Cordialmente, è scontato.
    Fiorenzo Alessi

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