MA DEI MORTI IMPORTA ANCORA?

di MARIO SCHIANI – I numeri hanno questo di sinistro: riescono a misurare tutto ma, alla lunga, perdono di significato, figuriamoci di valenza emotiva. I morti ammazzati da Hitler, quelli fatti fuori da Stalin e da Pol Pot, le vittime dell’Ebola, quelle dei terremoti: i numeri riferiscono realtà precise ma, alla fine, non le rappresentano se non statisticamente. L’importante, ce lo ricordano i testimoni della Storia, le vittime delle persecuzioni e chi, trovatosi nel mezzo di un cataclisma, è riuscito in qualche modo a scamparla, è non dimenticarsi mai che dietro ogni numero c’è qualcosa. Anzi, qualcuno.

Forse il processo di inaridimento dei numeri è inevitabile e in qualche misura necessario. Abbiamo però il dovere di impedire che progredisca troppo in fretta: lo dobbiamo a chi non c’è più e anche a noi stessi.

Questo sproloquio è dato dalla sensazione che, da qualche tempo, la triste conta dei morti per Coronavirus proposta ogni giorno da varie fonti – la Protezione civile e la Regione Lombardia per esempio – abbia perduto di impatto. Per dirla senza filtro: dei morti non frega più niente a nessuno.

Nell’ultima diretta Facebook dall’ufficio stampa della Regione Lombardia, il bilancio dei decessi non era affatto trascurabile: 200 persone passate a miglior vita nel giro di 24 ore. Eppure il dato, pur sottolineato nella slide, è stato del tutto ignorato dai rappresentanti schierati davanti alla telecamera. Non una citazione, non un commento. Non credo si tratti di dolo. E’ qualcosa di peggio: assuefazione.

Riferito all’intero territorio nazionale, lo stesso dato parlava di 464 morti. Eppure, quanti di noi hanno saltato a pie’ pari questa scomoda annotazione per correre ai dimessi, ai guariti, e al numero di ricoverati in terapia intensiva che, confermandosi in calo da un paio settimane, ci sta proprio dando delle belle soddisfazioni? Quattrocento morti al giorno equivalgono a 12 mila morti al mese: ci sono guerre molto meno sanguinose, ma quel che conta è che la “curva” s’è appiattita.

Confessiamolo: con la testa siamo già alla “fase 2”. Che dico? Siamo alla “fase 3” e forse anche alla 4. Il problema adesso sono il posto al ristorante e le vacanze “distanziate” su spiagge a prova di virus. La questione pressante è il rilancio dell’economia: lo è da sempre, per carità, ma si avverte oggi un’urgenza di avventarsi sul Pil che sogguarda ogni appello alla prudenza come un tradimento della Patria.

Tutto cambia, naturalmente, se uno di questi decessi ci tocca da vicino: un familiare, un amico. Il numero diventa allora una faccia, la statistica cede il passo ai ricordi, l’equilibrio del bilancino sanitario va a ramengo per colpa dei sentimenti.

Ma se così non è, allora il dato diventa fastidioso: una seccatura, nient’altro. Non ci stiamo già più dentro con l’“andrà tutto bene”: tutto deve andare bene adesso, subito. Presto che il 4 maggio c’ho un appuntamento! Peccato per chi non ce l’ha fatta, ma mi sa che stavolta trovo parcheggio in centro.

A lungo ci siamo fatti scudo delle statistiche sull’identità dei morti – “vecchi” e con “patologie pregresse” – ma ora anche questa forma di cinismo ci ha stancato: i defunti non sono neanche più corpi, solo numeri che si ostinano a provocare la nostra impazienza.

E va bene: forse abbiamo bisogno di tornare a vivere, forse è necessario che si riprenda il volante di noi stessi. Non ci raccontino più che ne usciremo migliori, però. Se non la pietà, salviamo almeno la decenza.

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