L’ineffabile amministratore delegato di Stellantis, il portoghese Carlos Tavares, il top manager noto anche per la sua contestatissima retribuzione 2023 di 23.5 milioni di euro compresi i bonus, ha esaltato la sua migliore qualità, quella di fare squadra: sì, tutti contro di lui. Sindacati, governo e opposizione, azionisti, opinione pubblica, Confindustria. Nessuno ha mai fatto meglio. Fiumi di parole e interviste riempiono i giornali e le trasmissioni di questi giorni, i fatti sono molto noti. In grande sintesi, due sono i suoi comportamenti che non vanno, su tutti: la promessa tradita di 1 milione di auto prodotte in Italia – e siamo a malapena a 400.000 in nove mesi – e il suo continuo e fastidioso frignare “datemi gli incentivi oppure lascio a casa un mucchio di lavoratori”. Un ricatto non nuovo, peraltro.
Vorrei dare un’interpretazione da suo umilissimo collega, ma prima ancora da italiano.
Innanzitutto, lui che è a capo di una conglomerata multinazionale, sulla carta il quarto gruppo automotive mondiale, ma in realtà una realtà fluida fatta di tanti marchi, fabbriche e masse di lavoratori in cui l’identità si diluisce, così come il suo fantasioso nome Stellantis, che ci comunica poco, non ha fatto niente per valorizzare i singoli brand e le eccellenze produttive della sua galassia. L’avete mai sentito difendere con passione quanto ha ereditato, da quando siede placidamente sulla poltrona più importante? Direi non pervenuto. Solo promesse pompose, conferenze stampa ad effetto e tante tante lagnanze ai governi di turno, rei di non sovvenzionare a dovere i mercati.
Certo, la transizione verso l’elettrico è un percorso intricato e pieno di buche, giusto chiedere supporto. Sbagliato però farne una questione di vita o di morte. Se vogliamo, anche l’Avvocato attingeva a mani basse dallo Stato, ma lo faceva dopo tutto a difesa totale dei lavoratori italiani e della rilevanza della prima industria privata del Belpaese. Anche i vari AD che si sono susseguiti hanno cercato sempre di proteggere un’identità aziendale e l’ultimo – Sergio Marchionne – ha letteralmente salvato la Fiat e la Chrysler insieme da una sicura bancarotta. C’erano in ballo interessi nazionali e, seppure in un contesto infiammato da battaglie sociali, c’era uno sfondo di solidarietà che manteneva un certo equilibrio. Di certo, Marchionne ha rappresentato un luminoso esempio di top manager impegnato a tutto campo senza soste per far progredire una realtà italiana. Non è sciovinismo, è semplicemente professionalità pura, unita a duro lavoro.
In secondo luogo, a parte i piani industriali annunciati e non realizzati: dove si vede il risultato del suo lavoro in termini di lanci di nuove auto che lascino il segno, dove sono le vere sinergie tra i marchi (per esempio, Alfa Romeo e Lancia a che punto sono?), le integrazioni intelligenti in ambito produttivo, le idee innovative per la nuova mobilità, insomma, qual è il suo merito? Ci ricordiamo molto bene, invece, la vicenda delle Topolino Fiat fatte in Marocco e bloccate al porto perché provviste di un adesivo tricolore non ammesso per prodotti che non siamo made in Italy: una figuraccia degna del miglior commento di Emilio Fede. E che dire del sostanzioso finanziamento pubblico di 200 milioni che il governo avrebbe destinato dai fondi del PNNR a favore del progetto della “gigafactory” per batterie a Termoli, alla fine non erogati perché non è stato presentato in tempo il piano da Stellantis? Cose da dilettanti. E il gioco di risiko internazionale dove le produzioni italiane sono state distribuite in Marocco, Serbia e Polonia, con effetto diretto di lasciare a casa 15.000 operai italiani? Non abbiamo mai sentito dal portoghese repliche convincenti e indicazioni chiare di sviluppo per il futuro.
Quello che, invece, è certo è il suo addio nel 2026, già annunciato oggi con rimpasti eccellenti, come se la decisione potesse calmare le acque agitatissime. Il signor Carlos si sarà già preparato la sua uscita, pardon, la sua buona-uscita con paracaduti dorati, di questo non dubitiamo. Anzi, avrà probabilmente un’altra poltrona già pronta che lo aspetta, d’altronde il suo curriculum parla da sé.
Ma il presidente di Stellantis, John Elkann, potente italiano dal grande blasone, chiamato dalle opposizioni a presentarsi in audizione al Parlamento per riferire, dov’era in tutto questo tempo? Scaricherà su Tavares tutte le colpe per la cattiva gestione o cercherà di fare un po’ di chiarezza? L’Italia intera, non solo il mondo dell’auto, si aspetta verità e segnali forti da un settore così strategico per il paese. Anche se niente induce ad essere ottimisti, viste le premesse.