MA CHE NE SANNO QUESTI DI MONTANELLI

di GIORGIO GANDOLA – «Il ritratto di un personaggio è come un quadro fiammingo, esige il chiaroscuro. Chi lo fa troppo in chiaro è un leccapiedi, chi troppo in scuro è un denigratore».

La metteva sul cromatismo, Indro Montanelli, quando spiegava giornalismo in tipografia e dopo un attimo intimava «Rifallo!» al malcapitato di turno. Mai avrebbe immaginato, lui così affezionato alle mezzetinte, di finire con testa, naso, collo e giacca immersi di nuovo nella pittura rossa. Gambizzato una seconda volta in quell’angolo di giardino pubblico di Milano che si chiama come lui, di nuovo messo in mezzo in una guerra non dichiarata fra libertà e oscurantismo, fra Storia e follia iconoclasta.

Non possiamo turarci il naso. Le telecamere hanno ripreso i gentiluomini dei Collettivi studenteschi mentre facevano lo show da Black Lives Matter del Municipio 1, quindi è pensabile che dal punto di vista giudiziario la faccenda abbia una rapida evoluzione: denuncia, arresto (fuori lockdown abitano nelle aule perennemente occupate della Statale), accusa per danneggiamento, processo, condanna.

Nel frattempo la statua verrà ripulita (alcuni ragazzi meno esagitati hanno cominciato a farlo) e lì rimarrà come ha assicurato il sindaco Beppe Sala che non ha nessuna intenzione di giocarsi il voto corrierista e borghese alle elezioni dell’anno prossimo.

Non possiamo turarci il naso perché sull’episodio incriminato del 1935 non se lo turò per primo lui. Ne parlò in Tv negli anni ’60, lo contestualizzò e lo giustifico con i tempi, le usanze e le circostanze. Da soldato della guerra d’Etiopia aveva sposato con un contratto di madamato, quindi a tempo (stranezze di allora in quell’angolo di mondo, considerate del tutto normali dalle famiglie), una ragazzina di 14 anni di nome Destà, che gli fungeva da cameriera e compagna d’alcova. Tornato in Italia, seppe che la giovane si era sposata con un altro militare e aveva chiamato il suo primo figlio Indro.

Una faccenda riprovevole se vista con gli occhi e la sensibilità di oggi, ma l’Indro Montanelli della statua è ben altro. Come Jean Jacques Rousseau che abbandonò i figli in un orfanotrofio e Caravaggio che fu condannato per omicidio. Ma nessuno pensa di disertare le sue straordinarie mostre nei musei del mondo.

Limitarsi a un episodio di 85 anni fa per giudicare il miglior giornalista italiano del Novecento è un atteggiamento triste e ottuso. Già dover spiegare cos’è stato il Gran Toscano a quattro fuoricorso senza arte né parte mette malinconia, in più bisogna anche difenderne la memoria da ricorrenti accuse prive di senso. Basterebbe dire che è doveroso giudicare la Storia, ma è stupido cancellarla, figuriamoci imbrattarla.

Il gesto pusillanime merita un approfondimento. Se il monumento a Montanelli è proprio lì, è perché rappresenta tutti i giornalisti vittime del terrorismo. È perché un giorno in quel punto di Milano le presunte o sedicenti Brigate Rosse (aggettivi obbligatori nella dominante vulgata di sinistra) si materializzarono davanti a lui e gli spararono per ucciderlo. «Ma io mi aggrappai alla cancellata per sostenermi e mi ricordai una frase di Mussolini: bisogna morire in piedi. Quelli colpirono le gambe e mi salvai». Come d’incanto «presunte o sedicenti» scomparve dagli articoli, qualcuno appese l’eskimo sugli appendini delle redazioni e il terrorismo fu considerato un dramma nazionale, un nemico da abbattere. Non solo gesti dimostrativi di «compagni che sbagliano».

Era una Milano feroce, era l’Italia degli attentati, delle stragi e degli inganni. E Montanelli era lì, a dare voce a un Paese che aveva bisogno di una verità diversa da quella più comoda e conformista. Evitò una condanna a morte dei nazisti, evitò quella dei terroristi (che in seguito perdonò), evitò di salire sul carro del Berlusconi politico (quando scese in campo lo abbandonò), evitò di essere strumentalizzato prima a destra e poi a sinistra, sport nazionale attualmente molto praticato. Tutto questo per essere sfregiato da polli d’allevamento «che se li incontri di notte in una strada poco illuminata/ non sai se aspettarti un saluto o una coltellata» (copyright Giorgio Gaber).

Tutti hanno ufficialmente preso le distanze dallo stupido gesto. Ma è bene scrivere qualcosa che Montanelli avrebbe sollecitato ai suoi cronisti. I quattro ragazzi hanno una provenienza, un brodo di cultura, un vissuto politico, un parterre dalla bile ingrossata che li supporta, li giustifica e li applaude col silenziatore. Parliamo di demi monde culturale, giornalistico, politico che non ha mai sopportato il liberalismo di Montanelli. Il virus non ci ha migliorati se ci limitiamo a dare la caccia ai topolini. E non vediamo le abilissime mani che li lanciano dai tombini.

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