di MARIO SCHIANI – Se fosse un paese vero e proprio, con i suoi ventiseimila abitanti avrebbe diritto a venti consiglieri comunali e a un sindaco, magari impegnato a fare lo sceriffo e a seminare dissuasori per le strade. Per fortuna non è un paese vero e proprio, ma un paese distribuito, o meglio ancora un paese-testimone. E’ composto dai ragazzi che la comunità terapeutica di San Patrignano ha restituito alla vita tirandoli fuori dal vuoto della droga. La loro è la testimonianza della solidità di un’idea che, oggi, potrebbe perfino apparire scontata, ma che 42 anni fa fu difficile da mettere in pratica, diffondere e proteggere.
La storia della comunità di San Patrignano viene raccontata oggi da Giorgio Gandola il quale, senza peraltro rinunciare agli “altropensieri” forniti a questo giornale, ha prodotto alla bisogna un libro che, fin dal titolo, è un atto di cuore e generosità: “Tutto in un abbraccio”. Lo trovate in edicola con “Panorama” e, dal 16 dicembre, sul sito della comunità, www.sanpatrignano.org.
Avendolo letto in anteprima, posso assicurare che si tratta di un bel film. Sì, perché la sua struttura ha molto di cinematografico. Ai “flashback” dedicati ai difficili inizi si agganciano veloci proiezioni dedicate al presente e perfino al futuro, nello sforzo di rappresentare una storia dinamica, di crescita, di battaglie anche controverse e dolorose, tutte sostenute da un’idea semplice quanto possente: “Bisogna fare qualcosa per questi ragazzi”.
A portare avanti questa concezione, spirituale e pratica insieme, è il “Citizen Kane” che Gandola-Welles, nelle pagine del libro, inquadra da mille angolature: Vincenzo Muccioli. Un gigante dai “baffi a triangolo” che, a forza di abbracci qualche volta anche “stritolanti”, ha avviato la più grande comunità terapeutica d’Europa, oggi modello per chi crede che la lotta alla dipendenza non sia una faccenda da affidare in esclusiva alla medicina, ma un processo al quale devono partecipare la psicologia, il lavoro, la disciplina, la solidarietà e, sì, anche e soprattutto l’amore.
Oggi è facile convincersene, non così 42 anni fa, quando sia pure davanti all’evidenza dei danni che la droga stava portando a un’intera generazione, nessuno, ultimo lo Stato, sapeva come organizzarsi. Si organizzò Muccioli, e fu durissima, ma quell’uomo irradiava qualcosa: fiducia, probabilmente. Per questo tante famiglie disperate gli consegnarono i figli perché li tenesse con sé, in quella porzione di terreno che, con un distacco netto dalle cose altre, dagli interessi privati e dall’amore esclusivo per se stesso, aveva deciso di destinare a un esperimento umano di portata epocale.
Quel seme, difeso con la forza della convinzione più pura, coltivato anche a dispetto delle polemiche, degli scandali e delle gravi implicazioni giudiziarie, ha dato frutti impensabili: la comunità è oggi anche un motore economico, dai suoi laboratori escono prodotti d’eccellenza e ragazzi nuovi. “Non cambiati”, come ha sottolineato durante la conferenza stampa di presentazione del libro il dottor Antonio Bianchini, uno dei protagonisti di questa avventura, “ma cresciuti: capaci di essere più saggi e profondi, di affrontare meglio le difficoltà della vita”.
Di questa comunità che “fa crescere”, Gandola racconta tutto, i successi e i contraccolpi, le visite autorevoli e benedicenti di due presidenti della Repubblica, ma anche i processi – penali e ideologici – incontrati per strada. Racconta senza fare il furbo, come nel motto di Buzzati da lui pienamente adottato, nella consapevolezza che con queste vite messe a dura prova non si scherza: ogni fatto è presentato con evidenza lucidissima, gli aneddoti del passato sono scelti tra quelli che più proiettano il loro senso nel presente e nel futuro.
Chi è della mia generazione leggerà il libro con un po’ di nostalgia e perfino di allarme: la prima, nel ritrovare certi passaggi della nostra storia che ci hanno accompagnati, sfiorandoci e certo influendo su di noi, il secondo per la scoperta definitiva di quanto alta era la posta in gioco, non solo per quei ragazzi chiamati a lottare contro i loro demoni, ma anche da un punto di vista culturale, perché non sfuggisse l’occasione di alzare un argine contro un pericolo oggi tutt’altro che scomparso (e a quale prezzo, di fatica e anche di errori, si è riusciti a farlo), ma che almeno è riconosciuto e di fronte al quale si ha ben presente la necessità di garantire delle ciambelle di salvataggio.
“Tutto in un abbraccio”, ha spiegato Giorgio Gandola, per due motivi: prima di tutto perché proprio l’abbraccio era la particella elementare della terapia di Vincenzo Muccioli, e poi perché oggi, nei giorni del Covid, è una pratica difficile, anzi impossibile. Occorre tenerla a mente, però: fa bene, guarisce malattie, salva le persone e permette di scrivere libri speciali.