L’ITALIETTA DI GASLY

di GIORGIO GANDOLA – Parliamo dell’elefante. Era il titolo di un libro, negli anni Sessanta diventò un modo di dire. Era una trovata di quel geniaccio di Leo Longanesi che dopo avere scritto un pamphlet sui difetti di Mussolini lo titolò “Parliamo dell’elefante”. A chi gli domandava per quale motivo, lui rispondeva: «Perché in quegli anni era l’unico grosso animale del quale si potesse parlare senza il rischio di essere incarcerati».

E allora oggi parliamo dell’elefante a motore, del dolce rombo dell’Alpha Tauri, dell’italianità di Pierre Gasly, francese che vive a Milano ed è affascinato dai grattacieli dell’Isola. Parliamo della Formula 1 rinata a Monza grazie alla Toro Rosso, che in fondo non è altro che l’evoluzione digitale della Minardi, con capitali austriaci e ingegneri inglesi (hai detto niente). Insomma, parliamo d’altro.
Già, la Minardi. Oggi va bene tutto, anche la lacrima nel ripensare ai tempi eroici quando il team emiliano festeggiava le qualificazioni, si presentava all’ultima fila e teneva duro per mezzo gran premio nel tentativo di mantenere l’ultimo posto, che significa rimanere vivi, continuare a girare. Fino a quando non scompariva dai monitor, ferma al limitare del bosco, strepitoso soprammobile simbolo di un’Italia artigianale che ha sempre saputo lottare per far parte dell’eccellenza.

Prost, Senna, Mansell, e poi Villeneuve junior, Hakkinen, Shumi – soprattutto lui – disputavano un altro gran premio. E se avessero avuto gli abbaglianti quando doppiavano la Minardi li avrebbero usati. Ma lei era lì, rombava con gli altri, correva con gli altri, rompeva prima degli altri.

Dopo Monza abbiamo letto di tutto e ci sembrava di essere tornati da Marte. Abbiamo scoperto dai giornaloni che in fondo l’Alpha Tauri è italiana e ha salvato la patria motoristica, che Gasly vive fra noi, apprezza il nostro stile di vita («Siete gente passionale, qui si respira una grande carica emotiva»), non sa cosa sia il panettone ma adora gli apericena sui Navigli, quindi bisogna assolutamente farlo sembrare italiano. Anche perché fa parte della “next gen”, la generazione ruggente dei ventenni dei quali faceva parte fino a qualche gran premio fa anche un certo Leclerc, tornato improvvisamente un ragazzino viziato, monegasco. E poi il Gasly ha due idoli. I primo è Ayrton Senna, che essendo morto a Imola trasmette malinconie italiane, e il secondo Michael Schumacher, che sarà per sempre un italiano d’adozione.

Tutti i Tg ci hanno detto che c’è molta Italia in questa vittoria a sorpresa, che piccolo è bello, che non possiamo capire la gioia di meccanici in pista e tifosi a casa, che Gasly passeggia in zona Brera e non ha ancora scelto se tifare Inter o Milan. E che la nipote della Minardi che richiama una costellazione ci ha regalato un nuovo orizzonte siderale.

Sarà, ma tutto questo ci insospettisce, ci fa pensare che siamo alle solite con il giornalismo dalla schiena dritta che non dribbla i problemi. E ci suscita una domanda semplice semplice che Leo Longanesi uscito dalla giungla si sarebbe fatto, soprattutto a Monza: dopo quante ore è arrivata la Ferrari?

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