L’INDECENTE SHOW DELLA PENA DI MORTE

“’Let’s go! Let’s go!’. Nella camera della morte del penitenziario dello Stato dell’Oklahoma risuonano le ultime urla e le ultime imprecazioni disperate di John Marion Grant, prima che il boia cominci a iniettare nelle sue vene il cocktail letale di farmaci. Afroamericano, 60 anni, Grant viene dichiarato deceduto dopo 21 minuti di terribile agonia, di convulsioni incontrollate e violenti conati di vomito”.

Questa la notizia, nuda e cruda, che ci è pervenuta nelle scorse ore e che racconta di un evento di alcune ore fa. Ma era già successo. Il 23 luglio 2014, in un carcere dell’Arizona, l’esecuzione della condanna a morte di Joseph R. Wood, detenuto 55enne condannato per omicidio, è durata circa due ore al posto dei previsti dieci o quindici minuti. Il 29 aprile dello stesso anno l’esecuzione del 38enne Clayton Lockett, avvenuta in un carcere dell’Oklahoma, durò quasi tre quarti d’ora, mentre il 16 gennaio il 53enne condannato Dennis McGuire impiegò circa 25 minuti per morire in un carcere dell’Ohio.

Diciamo che a Marion Grant è andata bene: la sua agonia è durata “solo” 21 minuti.

Ma la notizia resta inquietante, anche e soprattutto per il suo ripetersi. Intanto la vita che dovrebbe essere soppressa con igienica rapidità, si prende una paradossale rivincita, fa verso i carnefici e gli spettatori una specie di sberleffo finale. Non dura i pochi minuti stabiliti dalle procedure e dai farmaci, ma dura molto di più: si è tentati di dire che dura quanto decide lei, la vita, di durare.

Ma, appunto, durando l’agonia si prolunga soprattutto lo spettacolo della morte: una agonia indecorosamente offerta agli sguardi di tutti: i testimoni che hanno assistito e quelli che hanno letto il racconto dei testimoni. E’ successo così che le “convulsioni incontrollate e violenti conati di vomito” visti e raccontati hanno confermato un atteggiamento che dura da sempre di fronte alla morte. Il vomito del morente ha accentuato la sua sventura in rapporto alla mia fortuna: io ho la fortuna di non vomitare come lui e soprattutto di non morire come lui. La sua morte è solo sua, non è mia. Aveva ragione Epicuro: “Il piú terribile dei mali, la morte, non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo piú”.

Chiarissimo e tranquillizzante. Ma c’è un guaio. La tradizione cristiana ha accentuato il legame affettivo con gli altri che sono, alla lettera, miei fratelli, figli dello stesso Padre. Se muore mio fratello io, proprio perché sono suo fratello, in qualche modo muoio anch’io con lui. Io ci sono ma c’è anche la morte con me, la morte di quella persona amata mi appartiene perché mi apparteneva profondamente lui che se ne è andato. E così i vomiti e le convulsioni di Marion Grant sono anche i miei. E non mi lasciano in pace.

 

 

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