L’OTTUSA STRONCATURA DELLA MARILYN DI “BLONDE”

Stroncato malamente dalla critica dopo gli 11 minuti di applausi ricevuti alla prima italiana di Venezia, “Blonde” è balzato immediatamente al primo posto tra i film più visti su “Netflix”. Il romanzo cinematografico su Marilyn Monroe, prodotto da Brad Pitt e firmato dal regista Andrew Dominik (55 anni, mezza dozzina di lungometraggi alle spalle e solo 4 sceneggiature), fa discutere poco gli esperti e il pubblico americano, quasi tutti accomunati dal parere che si tratti di un detestabile, crudele esperimento, bollandolo come sessista, antiabortista, sfruttatore e tecnicamente abominevole. Suscitando commenti adirati del tipo: “Forse dovremmo smettere di lasciare che uomini misogini cerchino di fare film rivoluzionari su donne di cui non sanno nulla”.

Parlo da semplicissimo e umilissimo spettatore che ha inghiottito le 3 ore di pellicola prima di confrontarsi con qualsiasi recensione. Ho amato, letto e visto molto, come credo moltissimi coetanei boomer, di e su Marilyn. La prima osservazione è che alla fine mi interessasse poco quanto di vero ci fosse e quanto inventato, o meglio, costruito per rendere l’idea – a quasi un secolo dalla nascita ed esattamente 60 anni dalla scomparsa – dell’incubo stellare vissuto da una delle più grandi icone della storia di Hollywood, morta in circostanze ancora oggi misteriose per un’overdose di barbiturici attribuite ufficialmente a un “probabile suicidio”.

Che l’esistenza di Norma Jean (questo il suo vero nome) sia stata tormentata sin dall’infanzia, è un rilievo storico acclarato e che abbia condizionato la sua fragilità e la sua debolezza, attraversando tumultuosamente un successo mondiale, è altrettanto reale e descritto nell’omonimo libro (“Blonde”) di Joyce Carol Oates. Dunque la minata psicologia della piccola Norma, causa padre assente e madre psichicamente turbata al punto da costringerla a crescere in case famiglia fino alla maggiore età, ha lasciato un segno indelebile nel carattere ma non in una mente acuta e veloce, capace (insieme ed anzi oltre la sua conturbante bellezza) di far innamorare un grande scrittore come Artur Miller, dopo la turbolenta relazione con l’ex stella del baseball Joe Di Maggio e prima delle chiacchierate liason con i fratelli Kennedy, liquidate – questo sì – nel film in un semplice, abbastanza volgare rapporto orale con Bob.

Avanti e indietro tra il bianco e nero e il colore, nell’indugiare su dettagli ed espressioni con un tappeto musicale confezionato quasi su misura nella oggettiva lentezza di alcuni passaggi, credo di aver colto molto bene lo smarrimento di una donna sola nella jungla, ora forte e coraggiosa, ora stanca e spaventata. I passaggi delle maternità mancate non mi mi hanno trasmesso altro messaggio, se non quello della sua sconfinata ossessione di diventare madre (in conflitto con il terrore di essere stata una figlia parecchio sfortunata, sin da bambina). La continua, quasi compulsiva ricerca della sicurezza tra le braccia e le gambe degli uomini, hanno senso se parametrate al reale percorso di vita. Senza aver mai conosciuto suo padre, giova ricordarlo.

Il ritratto è forse fin troppo crudo e confinato nelle turbe di un’icona maltrattata, dal sistema già contaminato e dai maschi, ammaliati dal fascino irresistibile oltre che dal suo timoroso incedere in talune direzioni, cavalcando comunque con tenacia l’immensa gloria raggiunta e strenuamente difesa, anche a scapito dell’amore. Alla ricerca di un equilibrio, del coraggio, della sicurezza prima che della ricchezza.

E’ probabile che, al di là del prodotto in sé, al mio rapimento di quasi 180 minuti abbia contribuito Ana De Armas, splendida protagonista, attrice cubana naturalizzata spagnola che avevo già incontrato e apprezzato per esempio in “Sergio” e “The grey man”. Si è superata stavolta, rendendo l’idea (più reale forse rispetto a tutta la sceneggiatura) su quanto straordinariamente bella, intelligente, vulnerabile e sognatrice, infine, fosse Norma Marilyn. Che sognare ci ha fatto e ci fa ancora oggi.

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