L’IMBARAZZANTE DREAM-TEAM DEI RIBELLI

di LUCA SERAFINI – Tutte storie diverse, con il denominatore unico di amori finiti. Crepuscoli pervasi di rabbia, insofferenza, dispetto. Come nei matrimoni alla deriva, alla fine uno dei due tira fuori per primo il contratto dal cassetto che poi scaraventa in mezzo al salotto. Addio mogano.

Campioni messi all’angolo, chiusi nello sgabuzzino tra capricci, ripicche, orgoglio e teste dure: qualche volta loro, qualche volta dei presidenti con di mezzo allenatori e compagni. Quello di Montolivo al Milan è biopic antico (irrisolto), quello di Mandzukic alla Juve un po’ più recente, pure irrisolto. Le altre querelle, freschissime invece.

Prima Milik, erede immaginifico di Cavani e Higuain, scaraventato da De Laurentiis in fondo al cuore dei napoletani: come la “sora Sofia” (dicono a Roma), “tutti la vonno ma nessuno se la pja”. Così il centravanti polacco, 93 presenze e 38 gol in 4 anni, allo scadere del lustro si è chiamato fuori ed è rimasto in naftalina in attesa degli eventi, con il miraggio degli Europei tra 5 mesi ai quali, come conseguenza, forse non verrà chiamato dalla sua Polonia con cui ha giocato 56 partite segnando 15 gol. Il finale va scritto a Marsiglia.

L’Inter si è incaponita su Nainggolan prima ed Eriksen poi. Il primo reo di una vita notturna, quando ancora si poteva, lontana dai crismi professionali e vicina a rammollirgli le gambe rallentandone il passo: sballottato tra Milano e Cagliari, dove adesso cerca di risorgere in una squadra in ginocchio, se n’è andato due volte senza sbattere la porta, non essendo il caso visto il lauto stipendio in gioco. Diverso il caso di Eriksen, nazionale danese (103 presenze e 36 gol), per 10 anni tra i migliori trequartisti del mondo tra Ajax e Tottenham, fino a quando l’indolenza non lo ha afflosciato e impigrito: così da Londra, dopo qualche screzio con Pochettino e torte in faccia con Mourinho, se n’è andato con destinazione Milano un anno fa. Ottima intuizione di mercato, un talento a pochi (si fa per dire) soldi. Piccolo dettaglio: Conte Antonio, allenatore dell’Inter, non lo voleva. Non lo prevedeva. Nelle sue idee tattiche non c’è posto per un avulso come lui, ma qualche piccolo sforzo l’allenatore nerazzurro lo ha fatto eccome per ritagliare al gioiellino qualche vetrina (41 presenze, 5 gol). Eriksen però ha ormai la consistenza di un mocio Vileda e non aiuta certo a far cambiare idea al tecnico leccese, probabilmente il più cocciuto del pianeta (tra l’altro). Quando gioca ha l’aria di un infante al planetario. Adesso è lì, a ornare Appiano Gentile come una kenzia. E non sembra che servirà a molto neppure il gol decisivo nel torrido derby di Coppa italia.

La love story del Papu Gomez a Bergamo con l’Atalanta e Gasperini, favola sportiva con pochi riscontri nella storia del calcio – soprattutto del club bergamasco – finisce in rissa alle viste del già triste Natale 2020. Mani addosso negli spogliatoi nell’intervallo di una partita, alla fine comunicato della Curva nerazzurra (assenti presenti) che invita tutti a stare calmi. Il Papu “defollowa” (cancella dai contatti) il compagno di squadra Ilicic, reo di averlo trattenuto da una pizza in faccia al Gasp e minaccia strali social, dando appuntamento per le sue verità su Twitter in un imprecisato futuro. Pare che Gasperini gli avesse chiesto di stare in campo in un’altra posizione e con altre mansioni rispetto al passato, anche causa un paio di viaggi di troppo in Sudamerica che avrebbero debilitato il giocatore. Nella Bergamo calcistica i calzoni in famiglia li porta l’allenatore, il Gasp, perciò società tifosi e compagni mollano il piccolo grande talento argentino e si raggruppano intorno al focolare del tecnico. Per il Papu resto solo l’esilio: è già a Siviglia, senza biglietto di ritorno.

Dopo che a Firenze è stato Cesare Prandelli, ex C.T. chiamato in corsa al posto del collega Iachini sulla panchina viola, a rivelare come sia stato chiarito (Deo gratias!) qualche problemuccio con l’unica star dei gigliati, Frank Ribery, esplode alla Roma il caso Dzeko seguendo i crismi abituali delle fregole giallorosse: una settimana prima sono terzi e lanciatissimi nella rincorsa scudetto alle milanesi, una settimana dopo sono sempre terzi, ma nel frattempo malmenati nel derby e dallo Spezia in Coppa Italia. Il rapporto tra il capitano e l’allenatore Fonseca scricchiola da tempo, la proprietà è nuova di zecca e sa poco dell’uno e dell’altro. Non c’è mediazione, come spesso in questi casi: il tecnico toglie la fascia al centravanti e non lo convoca nell’ultimo turno di campionato. Anche qui, finale tutto da scrivere e per di più tra i flutti agitati del cronico disturbo ossessivo compulsivo dell’ambiente che da sempre gravita intorno al club, tra passione sfrenata ed eccessi (stampa compresa).

Il fatto è che in tutte queste vicende, fatta salva la soave eccezione di Prandelli e Ribery a Firenze, la grande assente è la mano tesa di un sarto disposto a ricucire, oppure un pragmatico contabile capace di sistemare le cose prima che prendano corsi legali con gravi perdite finanziarie, di norma a carico delle società. Di norma, val la pena ripetere. I compagni di squadra (lo spogliatoio, genericamente) si guarda le unghie e fischietta; il club sta nel mezzo tra protagonisti, notai, tifosi e giornalisti; i duellanti non fanno un passo indietro, incondizionatamente.

Mi ricordo negli anni ’70 foto e immagini di allenatori che, durante gli allenamenti, ogni tanto chiamavano fuori dal gruppo un giocatore (di solito uno tra quelli più arrabbiati perché giocava meno), se lo prendevano sottobraccio e chiacchieravano passeggiando intorno al campo. Diceva infatti Nereo Rocco: «Fare l’allenatore non è difficile, basta far andare d’accordo e mantenere l’armonia tra una ventina di giovani milionari». Visionario d’altri tempi, già sapeva che nel calcio quando si firma un contratto non si giura fedeltà nel bene e nel male, ma soltanto la clausola effimera: «Finché una pallonata non ci separi».

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