LETTERA DA BERGAMO – 4

di CRISTIANO GATTI – Euforia per i dati in calo? Non diciamolo nemmeno per scherzo. Non è proprio possibile. Piuttosto, adesso che tutto il mondo è come Bergamo, dopo essersi comportato come Bergamo, cioè restando imperturbabile davanti all’esempio nefasto di Bergamo, come a sua volta Bergamo era rimasta imperturbabile davanti agli esempi della Cina e di Codogno, adesso le testimonianze da Bergamo non hanno più molta originalità. Di fatto entrano naturalmente e inevitabilmente nell’enorme calderone della morte e della sofferenza globali, fino alla noia e alla saturazione, fino all’insensibilità per overdose.

Eppure non è cambiato niente. Eppure dietro e dentro ai grandi numeri continuano ad accumularsi singole storie di una tristezza e di un dolore feroci. Anche se siamo così stanchi di sentirle. Qui, nell’occhio del ciclone, tra i grandi numeri si nasconde e si sperde ad esempio la scomparsa di don Resmini, 67 anni, che in questo territorio stava – starà – come Madre Teresa stava al mondo, tutta una vita dedicata agli ultimi e ai derelitti, tra Caritas e marciapiede, tra tossici e carcerati, tra clochard e immigrati. Spendendosi come sempre anche nei giorni del Coronavirus, senza tirare indietro neanche un dito mignolo, non gli è riuscito di evitare il fatale abbraccio della brutta belva. Se n’è andato sfilando su un carro funebre per le vie della città deserta, passando però come in una santa via crucis negli angoli nascosti e sordidi delle sue battaglie, tra due ali multietniche di umanità grata e afflitta, capace solo di timidi applausi.

Altra pagina, altre vicende. E’ un continuo. Se ne va anche il pugile Rottoli, 61 anni, gloria della boxe bergamasca, un peso massimo che tutti quanti si credeva fuori dalla portata di qualunque guaio fisico. Niente da fare, abbattuto anche il gigante. Con un’aggiunta spaventosa, per il resoconto da Spoon River: prima di andarsene, aveva assistito impotente alla morte della mamma e di un fratello. Sempre per la stessa causa, neanche il caso di specificarlo.

Quanto dolore, quanto nero, quanto buio. La morte si è seduta a capotavola e con la sua tracotante insolenza non se ne vuole più andare. Ogni tanto squilla il telefono ed è subito ansia. Mi chiama Gabriele, il mobiliere della Valle Imagna, mi racconta che se n’è andato anche il suo papà, 73 anni, una persona dolcissima, con un mite e saggio sorriso davanti alla vita: ha cominciato con un po’ di febbre, si è subito spaventato, oddio se mi prende non ne esco più, dopo una settimana a casa l’hanno ricoverato al Papa Giovanni XXIII, ormai più cimitero che ospedale, da lì non l’abbiamo più visto né sentito, e adesso il nostro strazio è pensare a quei suoi ultimi giorni da solo, nel terrore di una fine attesa, consapevole, percepita, e noi senza la possibilità di una sola parola, nemmeno un grazie papà…

Potrei continuare, ma ormai tutto il mondo sa di cosa parlo. Non c’è più bisogno che racconti come si è ridotta l’esistenza, a Bergamo. Eppure, anche nel fondo di questo limbo, si fatica a vedere il fondo. Non c’è limite alla sofferenza. Lo comprendo, restando senza parole, quando esco per un salto in farmacia e incontro Marco, il mio barista di sempre, il barista sottocasa. Sta portando il cane. Dalle rispettive mascherine ci salutiamo con un minimo di calma. Gli dico tienimi in caldo il primo caffè, non vedo l’ora di tornare al tuo bancone, voi tutto bene a casa? Lui scuote un po’ la testa, il suo carattere forte non gli permette di improvvisare scene particolari, ma le parole sono mattonate pesanti: sai, questo virus arriva nel momento peggiore, a gennaio hanno scoperto un tumore a mia moglie, immagina doversi curare adesso, in mezzo a questo inferno, ha una macchia ai polmoni, ma i medici dicono che bisogna aspettare, perchè non riescono a distinguere se è virus o se è quell’altra cosa…

Io non so veramente quale parola cercare nel mio frasario. Il mio lessico sul dolore è un disastro. Non mi viene niente. Solo un forza Marco, forza. Lui sorride timidamente, schermendosi: ma sì, dai, dobbiamo farcela. Dobbiamo vederci al caffè e ricominciare come prima. Stammi bene, riguardati, e vedrai che ne usciamo.

Mi incoraggia lui. La mia debolezza resta impietrita davanti alla forza di questo giovane uomo, fiero e indomabile, nel momento più atroce della sua esistenza. Io riesco solo a scomodare il mio Signore. Ti prego Dio del Cielo, adesso basta, un po’ di pietà per noi.

LETTERA DA BERGAMO

 

LETTERA DA BERGAMO – 2

LETTERA DA BERGAMO – 3

 

2 pensieri su “LETTERA DA BERGAMO – 4

  1. FIORENZO ALESSI dice:

    Lettere così, se si ha un briciolo di cuore, straziano.
    Vorrei augurarmi che, a tempo debito, facciano anche riflettere.
    Quel FORZA , rivolto ormai all’universo intero, è però parola di speranza e di fiducia.
    Ci aggiungerei di… rabbiosa determinazione a che il maledetto bastardo venga cancellato dalla faccia della Terra.
    Una buona giornata .
    Fiorenzo Alessi

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