LETTERA DA BERGAMO – 3

di CRISTIANO GATTI – La signora sta a debita distanza dal banco. Lei con mascherina e guanti, di fronte la farmacista con mascherina e guanti. La voce è tra l’ansioso e l’implorante: “Dottoressa, ma proprio non si può prima?”. La farmacista, desolata, mormora quello che può: “Signora, se solo potessi. Sa quanti sono nella sua situazione. Purtroppo le bombole d’ossigeno non si trovano. La metto in nota, ma non posso dirle quando. Se siamo fortunati, domani. Ma possono anche diventare quattro giorni. Dipende da quando si liberano”.

La signora scuote la testa, aggiunge solo una patetica giustificazione per la sua insistenza, quasi un parlare a se stessa: “E’ per mio cognato. Non sta bene da giorni. Lui e sua moglie, mia sorella, sono chiusi in casa. Al momento l’ossigenazione è 91, ma il nostro medico dice che bisogna stare pronti, presto andrà aiutato con l’ossigeno”.

La farmacista: “Tenetelo sotto osservazione. E speriamo, signora. Speriamo”.

Bergamo ora ha un tragico, disperato, irrimediabile bisogno di ossigeno. Certo idealmente del respiro globale e collettivo che permetta al corpaccione sociale di rimettersi in piedi e ricominciare a camminare. Ma anche e soprattutto, nel modo più letterale e immediato, di bombole. Di bombole vere, metalliche, piene. Per un respiro vitale.

Mentre medici, infermieri, volontari della Protezione civile e delle Croci di tutti i colori combattono al fronte, dentro la trincea dei casi estremi, qui nelle retrovie, nei singoli quartieri, si combatte casa per casa. Il numero dei malati è enorme. Molto più grande dei numeri ufficiali, che si riferiscono ai casi certificati con tampone. Un numero spalmato ovunque, con impietosa democrazia.

Ma è da queste retrovie che sta nascendo anche qualcosa di vagamente sublime. Me lo spiega per filo e per segno un medico di base, una dottoressa che ha la sua condotta nel centro della città. E’ lei che ci tiene a portare in superficie questo sommerso. “La prego – mi dice – racconti questa cosa. Noi medici di famiglia ci teniamo”. E scopro così come siano proprio loro, i medici di base, che non dormono più e non hanno più famiglia, che ci stanno morendo, a provare gratitudine nei confronti della loro gente. Ascolto un racconto che sa di buono. Comunque di umanità robusta e dignitosa. Nel pieno di questa guerra, mi dice la dottoressa a nome di tanti colleghi, i pazienti si sono messi al loro posto e da settimane combattono come possono, a mani nude. Già quelli che intasavano gli ambulatori con i loro dolori, le loro ansie, le loro fisime, improvvisamente si sono ritirati e nemmeno provano più a lamentarsi. C’è un rispetto totale per la malattia vera e letale. Ma il fenomeno più incredibile riguarda un nuovo esercito di infermieri improvvisati e volontari, senza diploma e senza qualifica, che però di fatto tiene in piedi la barcollante sanità collettiva, in silenzio, senza lamentele, con generosità e sacrificio.

“Mogli, mariti, figli: sono i nostri primi collaboratori. Seri e scrupolosi. Noi non possiamo arrivare ovunque, ma loro compensano fornendoci per telefono i dati, la febbre, le ossigenazioni, il colorito. Dormono con un occhio chiuso e uno aperto, ascoltando il respiro del loro caro. E poi ci sono i vicini del pianerottolo, una cosa mai vista: si offrono per andare a fare la spesa, per scendere in farmacia, per cucinare. Cosa posso fare io, adesso, se non dire grazie a tutti. Sono anche loro veri eroi di questa guerra. Una cosa inimmaginabile. Una cosa che resterà per sempre”. Anche perchè niente è più atroce che sorbirsi la sofferenza di chi si ama, goccia a goccia.

Gli eroi che danno degli eroi ai loro soldati semplici. Succede anche questo, nel momento della prova. Ma è un riconoscimento naturale e inevitabile, di fronte a questo slancio muto e collettivo. Non è una magra consolazione: è una consolazione. Se dal male nasce sempre qualcosa che ha a che fare con il bene, qui sta nascendo. Proprio qui, dove abbiamo contratto una forma particolarmente aggressiva di infelicità.

Ed è per questo che sento nuovamente il dovere di bussare al mondo esterno, là dove l’epidemia è solo un po’ meno feroce, o appena più lontana. Se nella prima lettera da Bergamo ho chiesto a chi non conosco di non fare come noi, colpevoli di aver sottovalutato il pericolo e scherzato col fuoco, in nome di valori malintesi come lavoro e produzione, ugualmente adesso sento il diritto e il dovere di dire: fate come noi. La nostra risposta deve essere un modello, una soluzione possibile, per tutti. Un modello da evitare quello del prima, un modello da imitare questo del dopo.

Spero che la voce circoli anche stavolta, con la stessa convinzione. Certo prego perchè non ne abbiate bisogno: ma se così fosse, a disastro avviato fate come noi. Ognuno al proprio posto, con disciplina e altruismo. Non possono fare tutto i medici e gli infermieri. Non è prendendo a randellate i politici che guariscono i nostri malati. E’ con la nostra opera valorosa e coraggiosa, dentro ogni famiglia, che si possono ribaltare le sorti della guerra. Come Tolstoj racconta che fece il popolo russo all’arrivo prepotente di Napoleone.

I numeri continuano a farci male, qui a Bergamo. Non cedono. Ma di sicuro hanno trovato pane per i loro denti. Hanno trovato persino un solenne schiaffo sul muso, la vita che nonostante tutto continua a sbucare da tutte le parti. L’altro giorno un’amica di mio figlio, Francesca, ha scodellato proprio nell’ospedale più infetto d’Italia, il Papa Giovanni XXIII, la sua magnifica creatura. Mamma e papà l’hanno chiamato Enea. L’avevano deciso da tempo, questo nome, anche perchè la mamma è vittima dei suoi studi classici. Ma mai avrebbe immaginato di inventarsi il nome perfetto per questo tempo tremendo. Nascere adesso, qui, è già di per sé epica.

3 pensieri su “LETTERA DA BERGAMO – 3

  1. Fiorenzo Alessi dice:

    Caro Cristiano, le tue riflessioni sono come delle cinghiate .
    Quelle che tanti anni fa padri capaci di fare fino in fondo il loro mestiere si vedevano costretti a rifilare a figli scavezzacollo . Facevano male , ma non significa che ,per la gran parte, non abbiano portato beneficio vitale.
    Magari non sarà un esempio del tutto calzante , e meno ancora politicamente corretto od alla moda, ma trovo che nelle circostanze e contingenze in cui si versa, il fine giustifichi i mezzi.
    Grazie per quello che ci dici e per come ce lo scrivi.
    Con Amicizia .
    FIORENZO

  2. Giovanna De canio dice:

    Mentre Roma discute, Bergamo (la novella Sagunto) è espugnata dal coronavirus…
    Speriamo – come dici tu, caro Cristiano – che con la nostra opera valorosa e coraggiosa dentro ogni famiglia si possano ribaltare le sorti della guerra.

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