LETTA&SALVINI, I DUE MODI OPPOSTI DI PRENDERSI LA BANCATA

La guerra è la metafora della vita. O, forse, è la vita a essere la metafora della guerra. Sarà per il mestiere che faccio, cioè lo storico, ma, sempre più spesso, osservo gli accadimenti umani come Clausevitz analizzava le peculiarità del combattimento. E, qualche volta, funziona. Così, non posso non notare come, all’indomani delle elezioni, lo scenario ricordi da presso quello di un campo di battaglia, dopo che tutto è finito: bandiere stracciate a terra, rottami fumanti, cadaveri nelle più scomposte posizioni. E, in lontananza, gli sconfitti, in ritirata o in fuga. Mentre i vincitori lanciano al cielo i loro “Hurrà!” ed acclamano i propri marescialli.

Vi sono, tuttavia, vittorie e vittorie, sconfitte e sconfitte. Alcune battaglie vedono l’annientamento del nemico, altre servono solo a conquistare una posizione o a modificare l’andamento strategico di una campagna: così, vi sono rovesci più o meno gravi e definitivi. In queste elezioni, mi pare di poter dire che la batosta presa dalle sinistre, scese in campo con una sicumera piuttosto fastidiosa e puntando tutto sulla demonizzazione degli avversari, sia stata particolarmente sonora e sanguinosa, tanto che, per un po’, non li si vedrà al timone della Nazione.

Di notevole portata, però, è stata anche la débacle leghista, che suona ancor più sanguinosa se rapportata al trionfo di FdI. Insomma, anche tra i vincitori c’è stato un vinto, che si chiama Matteo Salvini. Non starò qui ad analizzare le ragioni di questo crollo: mi limito a dire che rinunciare alle idee fondanti del proprio movimento, per cercare di allargarsi in territorio altrui, è prassi che, alla lunga, non paga.

Comunque sia, ci sono due sconfitti, all’indomani del 25 settembre: Letta e Salvini. Il primo non ha azzeccato una scelta tattica che sia una, dimostrando la propria insignificanza politica e una mancanza di carisma addirittura desolante: paradossalmente, però, proprio nella sconfitta ha avuto un sussulto d’orgoglio e, lasciatemelo dire, una sorta di riscatto. Certo, i generali devono saper vincere, altrimenti è meglio che restino a casa: tuttavia, anche nel perdere dignitosamente e nel ritirarsi a vita privata ci può essere una specifica grandezza. Ed Enrico Letta, dopo una giornata da protozoo, ha scelto un crepuscolo da leader: ha ammesso gli errori e la sconfitta e si è tirato indietro. Chissà, magari lui avrebbe voluto fare tutt’altro e ci è stato costretto: ma noi siamo scienza, non fantascienza, e dobbiamo basarci sui fenomeni, non sulle induzioni. Così, gli sia dato l’onore delle armi: lascia la sua Amba Alagi da persona seria e civile.

Lo stesso non si può dire per Salvini: già si presenta come un caciarone e un divoratore compulsivo di generi commestibili, e questo non favorisce la sua immagine di condottiero. Soprattutto, però, ha dimostrato di non saper vincere, quando tuona il cannone, né di saper perdere, quando il cannone torni a tacere. Semplicemente, non è un comandante: è un gregario che si è trovato a cavalcare un momento felice per la Lega. L’uomo sbagliato al posto giusto, verrebbe da chiosare. E, oggi che le urne hanno dolorosamente ridimensionato le ambizioni sue e del movimento, non ha la forza morale di ammettere lo sfondone e resta lì, metà in sella e metà staffato, a lanciare sterili apoftegmi e ad accusare tutto e tutti della sconfitta, trascurando il colpevole principale, vale a dire se stesso.

Io non mi intendo di politica, ma di stile, credo, un pochino sì: e mi viene da dire che Salvini di stile ne abbia davvero il minimo sindacale. Avrebbe dovuto farsi da parte, per il bene comune: invece, con il suo comportamento, dimostra di avere in testa soprattutto il bene suo proprio. Che non è esattamente ciò che ci si aspetta da un “capitano”. Semmai, è un comportamento da caporale di giornata. Tanto da essere surclassato, quanto a signorilità, perfino da uno come Letta, che, spesso, ha dato prova di non essere precisamente un gentleman dell’esternazione politica. N’importe: entrambi si avviano al tramonto. Ma, come dicevo, c’è modo e modo di tramontare.

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