Vi sono, tuttavia, vittorie e vittorie, sconfitte e sconfitte. Alcune battaglie vedono l’annientamento del nemico, altre servono solo a conquistare una posizione o a modificare l’andamento strategico di una campagna: così, vi sono rovesci più o meno gravi e definitivi. In queste elezioni, mi pare di poter dire che la batosta presa dalle sinistre, scese in campo con una sicumera piuttosto fastidiosa e puntando tutto sulla demonizzazione degli avversari, sia stata particolarmente sonora e sanguinosa, tanto che, per un po’, non li si vedrà al timone della Nazione.
Di notevole portata, però, è stata anche la débacle leghista, che suona ancor più sanguinosa se rapportata al trionfo di FdI. Insomma, anche tra i vincitori c’è stato un vinto, che si chiama Matteo Salvini. Non starò qui ad analizzare le ragioni di questo crollo: mi limito a dire che rinunciare alle idee fondanti del proprio movimento, per cercare di allargarsi in territorio altrui, è prassi che, alla lunga, non paga.
Comunque sia, ci sono due sconfitti, all’indomani del 25 settembre: Letta e Salvini. Il primo non ha azzeccato una scelta tattica che sia una, dimostrando la propria insignificanza politica e una mancanza di carisma addirittura desolante: paradossalmente, però, proprio nella sconfitta ha avuto un sussulto d’orgoglio e, lasciatemelo dire, una sorta di riscatto. Certo, i generali devono saper vincere, altrimenti è meglio che restino a casa: tuttavia, anche nel perdere dignitosamente e nel ritirarsi a vita privata ci può essere una specifica grandezza. Ed Enrico Letta, dopo una giornata da protozoo, ha scelto un crepuscolo da leader: ha ammesso gli errori e la sconfitta e si è tirato indietro. Chissà, magari lui avrebbe voluto fare tutt’altro e ci è stato costretto: ma noi siamo scienza, non fantascienza, e dobbiamo basarci sui fenomeni, non sulle induzioni. Così, gli sia dato l’onore delle armi: lascia la sua Amba Alagi da persona seria e civile.
Lo stesso non si può dire per Salvini: già si presenta come un caciarone e un divoratore compulsivo di generi commestibili, e questo non favorisce la sua immagine di condottiero. Soprattutto, però, ha dimostrato di non saper vincere, quando tuona il cannone, né di saper perdere, quando il cannone torni a tacere. Semplicemente, non è un comandante: è un gregario che si è trovato a cavalcare un momento felice per la Lega. L’uomo sbagliato al posto giusto, verrebbe da chiosare. E, oggi che le urne hanno dolorosamente ridimensionato le ambizioni sue e del movimento, non ha la forza morale di ammettere lo sfondone e resta lì, metà in sella e metà staffato, a lanciare sterili apoftegmi e ad accusare tutto e tutti della sconfitta, trascurando il colpevole principale, vale a dire se stesso.
Io non mi intendo di politica, ma di stile, credo, un pochino sì: e mi viene da dire che Salvini di stile ne abbia davvero il minimo sindacale. Avrebbe dovuto farsi da parte, per il bene comune: invece, con il suo comportamento, dimostra di avere in testa soprattutto il bene suo proprio. Che non è esattamente ciò che ci si aspetta da un “capitano”. Semmai, è un comportamento da caporale di giornata. Tanto da essere surclassato, quanto a signorilità, perfino da uno come Letta, che, spesso, ha dato prova di non essere precisamente un gentleman dell’esternazione politica. N’importe: entrambi si avviano al tramonto. Ma, come dicevo, c’è modo e modo di tramontare.