C’è un solo evento che raccoglie, per una settimana, il meglio del giornalismo italiano che si occupa di spettacolo, alla voce musica: il festival di Sanremo.
Sarebbe interessante utilizzare un drone per sorvolare la sala stampa dell’Ariston e rendersi così conto dell’ego stratosferico (a confronto i cronisti del calcio sono giovani marmotte) degli inquilini di quel sito, un incrocio tra una scolaresca in gita campagnola e un centro sociale privilegiato, tra canti, balli, graditi omaggi e note spese, professionisti pronti a porre domande torrenziali che, in verità, sono articolesse ad alta voce, tra sbadigli e brusii vari degli astanti, mentre l’intervistato di turno sul palco, confuso da ranuncoli e margherite, risponde in secondi trenta e spesso parte l’applauso della folla.
Uno spettacolo unico, esclusivo, un alveare alla ricerca del miele, lo scoop, il colpo di scena, la confessione, la denuncia. Fino a sabato notte, poi si torna in redazione, a dare, non tutti, di lima, perché se Sanremo è Sanremo, la pagnotta è la pagnotta.