SE LE PIAZZE ITALIANE SONO ORMAI ZONE DI GUERRA

Piazza del Popolo, Roma

Bisogna avere il coraggio delle proprie idee, ma soprattutto avere idee, per scrivere certi articoli. @ltroPensiero.net si prende la briga si selezionarne alcuni, con proprio gusto, a proprio giudizio, per diffonderli il più possibile, considerandoli contributi imperdibili, che tutti dovrebbero leggere. In questo caso, il professor Galli Della Loggia solleva sul “Corriere della sera” un problema molto serio e attuale, di cui nessuno vuole occuparsi per il solito timore di impopolarità: le nostre magnifiche piazze ormai ridotte a campo di battaglia tra baby-gang dal dubbio disagio esistenziale. Buona lettura e buona riflessione, qualunque essa sia. 

 

di ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA – Che cosa sarebbe l’Italia senza le piazze? Che cosa sarebbero le sue città senza piazza San Carlo, senza piazza delle Erbe o piazza San Marco, senza piazza Maggiore o la piazza del Campo, senza piazza Navona o piazza Plebiscito, senza piazza Politeama? Che cosa sarebbe l’Italia, e possiamo chiederci anche che cosa saremmo noi senza questi spazi pubblici dalle forme più varie e spesso impensabili, chiusi tra una cattedrale e un Palazzo di città, aperti su una marina, rinserrati sotto la balza di un monte e ai piedi di una scalinata come a Spoleto — che cosa saremmo senza questi spazi che spesso abbracciano tanta parte delle nostre vite e dei nostri ricordi.

Ma è proprio a tutto questo e più in generale all’intero spazio urbano italiano che se non mi sbaglio gli esiti dell’epidemia stanno dando un colpo distruttivo. L’ennesimo: e forse stavolta quello mortale.

A cominciare, da ciò che succede da settimane in alcuni luoghi urbani come quelli detti sopra o in tanti altri analoghi per fama e bellezza. Dove sul calare della sera folle di giovani hanno preso l’abitudine di adunarsi e di accamparsi fino all’alba dando vita a quanto ancora ci ostiniamo a chiamare pudicamente «movida» o «aperitivi», pur se in realtà meriterebbero ben altro nome. Quello che va in scena ormai quotidianamente alle colonne di san Lorenzo a Milano o a piazza Trilussa o a Campo de’ Fiori a Roma è la stessa cosa di ciò che accade un po’ dappertutto nelle città italiane. Eccitate dall’abuso dell’alcol e spesso da una musica a mille, sovente sotto l’effetto di sostanze stupefacenti che nelle circostanze solitamente girano a fiumi, le folle giovanili di cui sopra si abbandonano a schiamazzi, urlano, vomitano, urinano all’angolo dei palazzi, fanno a botte, dando regolarmente sfogo a «una violenza nuova, casuale, cattiva», come l’ha definita esattamente Beppe Severgnini.

Con il risultato che ormai da mesi molti dei posti più belli e attraenti delle città italiane dopo una certa ora sono diventati in pratica inaccessibili alla stragrande maggioranza dei loro abitanti e dei turisti. Sono di fatto sequestrati ad uso e consumo esclusivo di una sparuta quanto sfrenata porzione della popolazione giovanile. Succedeva anche prima, ma si direbbe che ora nelle loro imprese i protagonisti agiscano con maggiore e più baldanzosa protervia, quasi sentendosi autorizzati da una sorta di risarcimento che la società dovrebbe loro poiché si è macchiata della colpa di averli obbligati — gli infelici! — a stare a casa per evitare a loro e ai loro genitori di finire intubati in un letto d’ospedale. Sono non poche le voci che, seppure in modo obliquo arrivano in un modo o nell’altro a dar loro ragione invitando a «capirli». Non mi pare di sentire voci che, invece, ben più ragionevolmente, propongano ad esempio, come minimo, di contingentare stabilmente e sorvegliare l’accesso ai luoghi interessati. Non sarebbe meglio che dover raccogliere ogni notte un certo numero di accoltellati e organizzare il trasferimento dei fermati in questura? (l’idea che ci sia poi anche chi alle tre di mattina pretenda di dormire non è neppure da prendere in considerazione).

Nel frattempo, sempre a causa del Covid, un altro colpo è stato inferto al paesaggio urbano del Paese. Sempre con il proposito del risarcimento — questa volta per la diminuzione o interruzione subita dalla propria attività — bar e ristoranti sono stati autorizzati ad occupare, in deroga temporanea ad ogni disposizione di legge, con i loro tavolini tutto lo spazio pubblico che gli sembrasse utile occupare. A procedere a tale occupazione — gratuita — non solo con i tavolini né solamente sui marciapiedi, peraltro. Infatti, soprattutto nelle ultime settimane — paradossalmente proprio con lo scemare dell’epidemia ma non a caso con l’avvicinarsi della stagione estiva — bar e ristoranti si sono dati freneticamente a costruire dovunque dehors di ogni tipo e misura, con pedane di legno e strutture metalliche, e in moltissimi casi anche sulla sede stradale. Con l’ovvia conseguenza, tra l’altro, che in molte vie lo spazio per il parcheggio delle auto lungo i marciapiedi, già di per sé insufficiente, si è ulteriormente ridotto. È fin troppo facile prevedere che quando mai da qui a mille anni qualche governante suicida manifestasse l’intenzione di ristabilire lo stato precedente delle cose (cioè il rientro nella legalità) il minimo che ci si potrà aspettare sarà la rivolta generalizzata incluso il ricorso alle armi.

Questo italianissimo uso privato delle sciagure pubbliche è valso ad ampliare uno sconcio comunque già di antica data. Lo sconcio costituito da intere vie (perlopiù vie caratteristiche dei vecchi centri storici) e talora interi quartieri, che in nome del turismo sono stati tramutati in miserabili palcoscenici posticci del presunto «colore» locale o, più banalmente, come quinte delle attività di ristorazione. Quest’ultimo è il caso ben noto di quasi tutto il romano rione di Trastevere, o della Vucciria palermitana o delle napoletane via Partenope o Spaccanapoli: luoghi divenuti regolarmente delle ininterrotte e tristi file di tavoli di ristoranti ovvero , come l’appena citata Spaccanapoli, un volgarissimo susseguirsi di una sfilza di botteghe che vendono corni portafortuna, statuette di Totò, pasta Vesuvio, collane di finto corallo di plastica, al posto delle antiche attività commerciali e artigianali. Naturalmente nell’indifferenza della cittadinanza e con la benedizione degli amministratori locali sempre disposti ad avallare ogni turpitudine in cambio di un po’ di consenso.

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